"In America non abbiamo governi ombra o governi di opposizione in attesa di subentro. Quello che abbiamo invece è The West Wing, la serie della Nbc sullo staff della Casa Bianca”. Così 18 anni fa un pezzo uscito sul New Yorker definiva il rapporto quasi ossessivo della politica americana nei confronti della più idolatrata e mitizzata serie televisiva a essa dedicata.
Era una serie ambientata in quegli anni, ma “in un universo semi-contemporaneo nel quale il World Trade Center non è mai crollato” e nel quale alla Casa Bianca al posto di George W. Bush sedeva la sua perfetta, geometrica antitesi. Jed Bartlet, il presidente democratico che Bill Clinton non era stato, il presidente degli Stati Uniti perfetto secondo l’immaginario collettivo tradizionale: intelligentissimo, di un’intelligenza non da Principe di Machiavelli ma da filosofo platonico (prima ancora di divenire presidente ha vinto il Nobel per l’Economia); non solo scevro da ipocrisie, ma ancorato a un’integrità morale iperbolica al limite della santità, esente da vizi e scandali, e per di più segretamente afflitto dalla sclerosi multipla.
Un soggetto del genere sarebbe facilmente risultato oleografico e melenso se realizzato da una mente meno che geniale; uscì invece un capolavoro grazie al talento impressionante di quell’Aaron Sorkin che aveva debuttato appena ventottenne scrivendo (sui tovagliolini di un bar, narra la leggenda) l’opera teatrale A Few Good Men, poi trasfusa nell’omonimo film di Bob Reiner del 1992 con Tom Cruise, Demi Moore e Jack Nicholson (in Italia Codice d’onore), ma che proprio grazie a The West Wing, in un’epoca nella quale la tv era ancora considerata un campionato di serie B, si sarebbe fatto conoscere come uno degli sceneggiatori più dotati della sua generazione.
Sorkin, che come cavallo di battaglia vanta dialoghi ipnotici quanto verbosi (“mi avevano chiesto di iscrivermi a Twitter, come fanno molti sceneggiatori, ma non mi va: non credo di essere capace di scrivere nulla in 140 caratteri”, ha detto una volta), scrisse solo le prime quattro stagioni della serie, per poi passare la mano a uno staff di suoi surrogati e tornare a dedicarsi al cinema, sul quale all’epoca le produzioni televisive non avevano ancora avuto il sopravvento (nel 2007 firmò La guerra di Charlie Wilson di Mike Nichols, con Tom Hanks e Julia Roberts; nel 2010 The Social Network di David Fincher, il film sull’invenzione di Facebook che gli valse un meritato Oscar).
The West Wing aveva esordito sul piccolo schermo contestualmente all’elezione di Bush e sarebbe andata in onda per sette anni sino al 2006, cioè immediatamente prima dell’ascesa di Barack Obama (alla cui presidenza avrebbe invece fatto da contrappunto la ben diversa House of Cards, un coagulo di disillusione e cinismo, ferocia sanguinaria e spregiudicatezza luciferina, il trionfo di quella carogna di Frank Underwood che è l’antitesi di Bartlet e incarna lo smascheramento della pia illusione della sua West Wing). E a proposito di Barack Obama: proprio nella settima e ultima serie di The West Wing al presidente Bartlet subentra un successore molto giovane, palesemente ricalcato a sua immagine e somiglianza, che sembra veramente anticipare la realtà; l’unica differenza è che anziché essere afroamericano è latino (si chiama Matt Santos) – e anche questo è tipico della serie, i latinoamericani avevano da poco sorpassato gli afroamericani, quindi in teoria aveva più senso un Obama latinoamericano.
Ed ecco un altro elemento fondamentale di The West Wing: l’attitudine profetica, ma anche i suoi limiti (che talvolta i suoi fan trascurano). La giornalista e scrittrice Guia Soncini ha recentemente scritto che in quella serie “c’era già tutto, da «troveremo la cura per il cancro» detto in un comizio alle assunzioni degli insegnanti al timore d’una pandemia ai vaccini alla predisposizione dell’elettorato a offendersi alla smania dell’internet di dir la sua”. C’è del vero, ma è altrettanto vero che nulla in The West Wing ha mai suggerito, né agli addetti ai lavori né ai semplici appassionati, la eventualità dell’elezione di un presidente come Donald Trump. Che, scusate, non è un dettaglio di poco conto.
Anzi: chissà che proprio l’influenza dei canoni tramandati didascalicamente dal culto pagano di The West Wing non abbia contribuito a fuorviare le nostre analisi. Caro Aaron Sorkin, forse in fondo è anche un po’ colpa di quel tuo maledetto capolavoro se in tanti quattro anni fa abbiamo miseramente fallito nella previsione: guarda caso, spesso chi ha fallito con maggior ardire apparteneva proprio alla setta dei westwingers italici.
In Italia la serie non ha mai fatto grandi numeri, forse perché presuppone una comprensione della politica americana che mal si concilia con il rozzissimo luogocomunismo al quale la vulgata nostrana ci ha purtroppo abituati quando si parla di politica a stelle e strisce. Inoltre dopo essere stata inizialmente trasmessa da Rete 4, migrò per un po’ su Sky (canale Fox), per poi finire nella nicchia di canali secondari come Steel e Arturo, e infine definitivamente fuori dai canali legali, nella catacomba dei download pirata, senza più il doppiaggio e quindi a uso e consumo dei quattro gatti che padroneggiavano a sufficienza la comprensione della lingua inglese. Da cui una fisiologica acutizzazione della sindrome da setta di iniziati, a volte persino un po’ snob, che aveva finito per caratterizzare la esigua comunità dei suoi pochi ma raffinatissimi spettatori italiani. Con il tempo la chiusura in una bolla, in una echo chamber, è stata fatale, portando alla miopia i fortunati che potevano essere destinati a vedere più lungo degli altri.
Ben venga quindi il colpo di scena: quando ormai avevamo perduto ogni speranza, in una stagione in cui l’elitarismo non paga, The West Wing in versione comodamente e pigramente doppiata è salita alla ribalta della visione per tutti, libera e mainstream, grazie ad Amazon Prime Video.
Approfittatene. Con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali americane, guardatela. Gustatevela. Usatela. Anche se non aveva previsto Trump. Basta tener presente che si tratta di una narrazione che spiega, e persino insegna, la politica americana non come era un tempo e purtroppo non è più, bensì semmai come dovrebbe essere in teoria (ma forse non è mai stata realmente – non compiutamente, non del tutto). Basta saperlo, e non scordarlo mai. Buona visione.
Uscito su Wired
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