martedì 6 novembre 2018

JOHN MCCAIN, VINCENTE

La legge dello Stato dell’Arizona stabilisce che, quando uno dei due senatori del Grand Canyon State venga a mancare durante il proprio mandato, il governatore dello Stato nomini un Senatore ad interim, appartenente allo stesso partito, fino alla prima scadenza elettorale utile. Il seggio che John McCain ha appena lasciato vacante verrà quindi riassegnato in questo modo sino alle elezioni del novembre 2020, per poi eleggere democraticamente un senatore, che comunque rimarrà in carica solo fino a quella che sarebbe stata la scadenza naturale dell’ultimo mandato di McCain, cioè novembre del 2022.
Lui, McCain, invece non aveva mai beneficiato di alcuna comoda cooptazione: il suo posto al Congresso se lo era sempre guadagnato sul campo. Nel 1987, si sente spesso dire, aveva “ereditato” il seggio al Senato dal mitico Barry Goldwater, il conservatore antistatalista uscito sconfitto dalle presidenziali del 1964 contro Lyndon Johnson, ma che aveva seminato il germe di quella rivoluzione reaganiana alla quale McCain aveva nel suo piccolo preso parte con la prima elezione alla Camera, nel 1982 (fresco di trasferimento in quell’Arizona che diventerà il “suo” Stato). Ma Goldwater non era venuto a mancare: era semplicemente andato in pensione dopo aver terminato il mandato, lasciando libero un seggio da contendere alle urne.
In queste ore in cui l’America e tutti i media occidentali si uniscono nel rendere omaggio all’eroe di guerra che sabato sera ha perso la sua ultima battaglia, quella contro il cancro al cervello (lo stesso presidente Trump, dopo aver inizialmente limitato al minimo sindacale la bandiera a mezz’asta sulla Casa Bianca – incattivito dalla profonda inimicizia che aveva diviso i due – ha poi ceduto ad un raro dietrofront proclamando ieri sera il ripristino del segno di rispetto sino ai funerali di McCain), può sembrare superfluo rivangare questi dettagli. Ma la questione è fondamentale: McCain è stato un grande “solo” perché ha saputo essere grande nella sconfitta (o meglio, perché ha saputo rinunciare alla vittoria pur di non cedere al “gioco sporco”) oppure ha saputo essere anche un vincitore? Stiamo parlando di un uomo politico: sarebbe assurdo misurarne la grandezza solo sullo stile e sulla moralità dimostrati nel perdere le elezioni.
Forse quando nel 2015 l’allora aspirante candidato Donald Trump dichiarò di non considerare McCain un eroe di guerra perché “si fece catturare, mentre a me piacciono quelli che non si fanno catturare”, stava facendo qualcosa di più che dare in pasto ai propri simpatizzanti uno slogan per smarcarsi da un detrattore autorevole. Trump stava lanciando una candidatura presidenziale basata su regole molto diverse da quelle tradizionali: tra l’altro, sulla convinzione che “there is no bad publicity”, che la buona reputazione è molto sopravvalutata e che per conquistare la prima fila serve spararle grosse, senza troppe remore, ben più che dar prova di signorilità. In buona sostanza, volete un candidato che sappia dimostrare onore, virtù, rettitudine, coerenza, ma poi alla fine esca onorevolmente trombato (come accadde a McCain nel 2008 contro Obama), o preferite uno che se ne frega di questi fronzoli ma che, anche per questo, sa portare a casa la sospirata vittoria? Quell’interrogativo, a distanza di tre anni, ancora aleggia, persino dalle nostre parti:


Le sconfitte elettorali di McCain sono solo due: alle primarie presidenziali del 2000, e alle presidenziali del 2008. Nel primo caso venne sconfitto da George W. Bush, il quale venne sostenuto dal partito con ogni mezzo. Gli appassionati di fake news che le considerano un fenomeno recente farebbero bene ad andarsi a rileggere la storia di quelle elezioni di diciotto anni fa, durante le quali su internet (un internet ancora privo di social network) venne diffusa la diceria secondo cui il senatore dell’Arizona aveva qualche rotella fuori posto a causa delle sevizie patite durante la prigionia in Vietnam (evocando perfidamente la versione originale del film The Manchurian Candidate del 1962, quella nel quale un sergente americano – interpretato da Frank Sinatra – veniva fatto prigioniero durante la guerra in Corea, sottoposto dai comunisti a un fantascientifico lavaggio del cervello, e in tal modo “programmato” per assassinare il presidente degli Stati Uniti una volta liberato e rimpatriato come eroe di guerra).


E allora forse è giusto ricordare anche questo: che no, John McCain non è stato “uno che le elezioni le perdeva”. È stato, innanzitutto, uno che è riuscito a farsi eleggere al Congresso ininterrottamente per trentacinque anni, dal 1982 al 2017, una volta alla Camera e ben sei volte consecutive al Senato. L’Arizona non è il Mississippi, né l’Alabama, né il South Carolina: è uno Stato che nemmeno negli anni recenti di “marea rossa” compare fra i primi dieci – ma neanche fra i primi venti – nelle classifiche degli stati ideologicamente più conservatori. Ed è, inoltre, uno Stato nel quale circa un terzo degli elettori registrati per votare non sono affiliati né al Partito repubblicano né a quello Democratico. Si tratta, insomma, di uno Stato nel quale l’elezione per un candidato repubblicano non è affatto scontata: va conquistata realmente, ogni volta. Tant’è che l’altro seggio senatoriale dello Stato, quando McCain subentrò a Goldwater, era saldamente detenuto da un Democratico, l’avvocato italoamericano Dennis DeConcini.
Particolarmente degna di nota è soprattutto la rielezione di McCain nel 2010, quando venne sfidato alle primarie da un popolare conduttore di talk show radiofonici sostenuto dal movimento populista dei Tea Party, che in quel periodo sembrava essere la realtà più vincente nella destra americana. Allora 74enne e reduce dalla sconfitta alle presidenziali, McCain riuscì comunque a non farsi strappare la candidatura, e venne rieletto con ampio margine.
Dopo il botto di McCain alle primarie del New Hampshire, il Team Bush, capitanato dal famigerato Karl Rove, pur di impedirgli il bis in South Carolina dove i sondaggi lo davano nuovamente in testa, fece ricorso ai cosiddetti “push polls”: telefonate camuffate da sondaggi e mirate in realtà a diffondere calunnie (“se lei sapesse che il senatore McCain ha una figlia illegittima avuta da una donna di colore, sarebbe più incline o meno incline a votarlo?”; e la fantasia dell’intervistato era suggestionata dal fatto che McCain aveva in effetti una figlia di colore, in realtà adottiva e nient’affatto illegittima).
La sconfitta di McCain alle primarie del 2000 va poi necessariamente valutata assieme alla sua vittoria alle primarie del 2008. Il tema più caldo era la guerra in Iraq. McCain aveva sempre contestato duramente l’impostazione della “guerra leggera” di Donald Rumsfeld, giudicandola sufficiente ad abbattere rapidamente il regime di Saddam ma non a gestire il dopoguerra. Nel 2006, anno di elezioni di midterm, si affacciava l’incubo di un “nuovo Vietnam” e come uscire alla svelta da quel pantano pareva essere l’unica questione realmente all’ordine del giorno. McCain era praticamente l’unico politico a scommettere pubblicamente sul cosiddetto surge, cioè sull’invio di molte più truppe. “Non crede che sostenere il surge possa distruggere la sua campagna elettorale?”, gli domandò Larry King, il celebre intervistatore della Cnn. “Preferirei perdere le elezioni che la guerra”, rispose lui. Venne rieletto al Senato, ma subito dopo dovette misurarsi con le primarie presidenziali, a pochi mesi dall’inizio delle quali la sua campagna pareva già in crisi, prima ancora di cominciare, per mancanza di fondi e sondaggi deludenti.
Molti commentatori cominciarono a sentenziare che si era suicidato con il suo ostinato appoggio al surge. Alcuni puntavano il dito anche contro la sua battaglia per la legalizzazione degli immigrati clandestini, invisa a molti elettori repubblicani. Nella primavera del 2007, quando il surge ebbe inizio, credere in un suo successo sembrava follia. Eppure proprio allora, nel momento peggiore, McCain sfidò a mani nude l’impopolarità del conflitto, tenendo – con al suo fianco veterani del Vietnam ed ex prigionieri di guerra – una serie di comizi all’insegna dello slogan No Surrender (“Non mollare”, riferibile alla presenza in Iraq ma anche alla sua candidatura alle primarie). Durante l’estate, eminenti membri del suo staff si dimisero: tra questi Terry Nelson, che aveva diretto la campagna per la rielezione di Bush nel 2004 e che McCain aveva a sua volta ingaggiato come campaign manager, e John Weaver, lo spin doctor texano che era stato il suo principale stratega elettorale fin dal 1999 (veniva spesso definito come uno che “sta a McCain come Karl Rove sta a Bush”). Ma proprio alla vigilia delle primarie, cominciarono ad arrivare buone notizie dall’Iraq. E come ben sappiamo, le primarie quella volta McCain le vinse.
Rimane, certo la sconfitta che poi riportò nell’elezione generale, contro Obama. Non va però dimenticato che McCain si candidava alla Casa Bianca dopo che per otto anni il suo inquilino era stato George W. Bush. Quell’elezione appariva fuori della portata del candidato repubblicano: di qualunque candidato repubblicano. Mantenere lo stesso colore politico alla Casa Bianca per tre mandati consecutivi è un’impresa quasi impossibile e riuscita, nell’ultimo mezzo secolo, solamente una volta: nel 1988, quando Bush padre succedette ai due mandati di Reagan. Ma allora l’amministrazione uscente (nel suo momento peggiore, dopo lo scandalo Iran-Contras) rasentava il 60% dei consensi, ed esserle “contigua” era un punto di forza decisivo. McCain, al contrario, nel 2008 subiva come un handicap letale la contiguità all’amministrazione Bush.
Se c’è qualcosa di veramente notevole nell’impresa condotta da McCain nel 2008 non è la mancata elezione, ma semmai il fatto di esserci andato, nonostante tutto, così vicino. Contrariamente al luogo comune, all’indomani della convention nazionale in Minnesota, alla quale era stata annunciata la scelta di Sarah Palin come candidata alla vicepresidenza, McCain aveva guadagnato consensi soprattutto fra i cosiddetti elettori indipendenti fra i quali, secondo la Gallup, era schizzato in testa con un impressionate vantaggio di ben quindici punti. Al contempo, la sua popolarità tra gli elettori democratici che si qualificavano come più centristi era salita al 25%, mentre prima della convention era al 15. Nella prima metà del mese di settembre, il prodigio era apparso possibile. Dopodiché, il 15 settembre del 2008, come un fulmine piovve dal cielo il fallimento della Lehman Brothers.
Ed è questo il vero spartiacque di quella corsa alla Casa Bianca. “Il giorno in cui la Lehman è fallita mi trovavo in compagnia di un amico che lavora per Obama. Non ci mise molto a mettere a fuoco cosa stava accadendo. “Terribile per l’America”, disse, “ma grandioso per la nostra campagna elettorale”ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times il 10 novembre 2008). E sul rapporto finale della Gallup sulle presidenziali del 2008 si legge:
McCain aveva repentinamente invertito la corrente ai primi di settembre. Si era portato in testa immediatamente dopo la convention repubblicana e gli acclamatissimi discorsi di accettazione della candidatura, il suo e quello della sua candidata vice Sarah Palin. A quel punto, McCain aveva provato il suo vantaggio più duraturo: 10 giorni, dal 7 al 16 di settembre. Il suo vantaggio si è interrotto improvvisamente con la crisi di Wall Street di metà settembre.
I dati che riflettono l’importanza di questa sliding door sono molti e di varia provenienza: “I dati della rilevazione quotidiana di Rasmussen reports sulle presidenziali mostrano che Obama è passato in testa nei 10 giorni successivi al collasso della Lehman Brothers – quando il crollo di Wall Street è stato avvertito dall’uomo della strada. Prima di quell’evento, John McCain era avanti di tre punti nel sondaggio nazionale. Dieci giorni dopo, Obama era passato avanti di cinque e non ha più mollato il suo vantaggio”, si leggeva a novembre di quell’anno sul Wall Street Journal.
Alla fine è stato l’allora vicepresidente Joe Biden a riconoscere l’accaduto, cinque anni fa durante un incontro pubblico con McCain: “Di fatto la verità è che – lo sa Barack e lo so pure io – se la situazione economica non ti fosse franata in testa, John…. Penso che probabilmente avresti vinto tu”.

Uscito su Forbes

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