mercoledì 2 maggio 2012

SORRY, OBAMA: LA "LOCOMOTIVA" DELL'ECONOMIA USA RESTA IL TEXAS

La rivista Forbes, celebre per la sua classifica delle cento persone più ricche del mondo, pubblica annualmente anche un'altra classifica non meno importante: quella delle città americane che eccellono nel creare nuova occupazione. Ideata dall'urbanista-politologo Joel Kotkin, la classifica è suddivisa in tre “Top10”: una per le grandi aree metropolitane, una per la città di media grandezza ed una per le piccole cittadine. L'edizione aggiornata 2012 è appena stata pubblicata e contiene una importante conferma: la locomotiva dell'economia USA, e quindi della ripresa, continua ad essere il Texas.

Il primo posto nella classifica delle aree metropolitane è infatti occupato anche quest'anno, come già l'anno scorso, dalla capitale texana  Austin (lì hanno la sua sede mondiale la Dell, il produttore di computer, ma anche la Texas Instruments; la stessa IBM dà impiego a circa seimila persone in quella zona, e la stessa Apple ha ad Austin un "campus" dove lavorano circa 2.500 persone, cui dovrebbero aggiungersene altre 3.600 entro il 2025 con un mega-ampliamento approvato negli ultimi giorni).  Tra le prime dieci figurano anche le aree metropolitane di Houston, Forth Worth e Dallas: anche quest'anno, quindi, come già l'anno scorso, quattro posizioni nella top 10 sono texane - mentre anche quest'anno nessun altro Stato ne occupa più di una. Rispetto all'anno scorso sono uscite da questa Top10 Washington DC e New York City; le migliori new entries sono Salt lake City (Utah), che dal ventesimo posto dell'anno scorso è ascesa al terzo, e l'area di San Jose – Santa Clara, ossia il cuore di quella che è universalmente nota con il soprannome di Silicon Valley, unica area della California ad aver fatto una buona performance in fatto di nuove assunzioni, schizzata al quinto posto dal ventisettesimo dell'anno scorso.

Anche nella Top10 delle città di medie dimensioni il Texas la fa da padrone: Corpus Christi, McAllen ed El Paso occupano infatti rispettivamente la seconda, terza e quarta posizione in una classifica nella quale nessuna altro Stato è presente in più di una.

Ancora più forte l'eccellenza texana nella classifica delle piccole città: se l'anno scorso quattro postazioni su dieci erano texane, quest'anno lo sono cinque, assegnate precisamente ad Odessa (anche quest'anno prima in classifica come l'anno scorso), Midland (seconda, l'anno scorso era quarta), San Angelo, Lubbock e Laredo. Notevole il quinto posto di Blacksburg, in Virginia, che l'anno scorso era appena al 168esimo (!).
Anche la Brookings Insistution, il più importante think tank di area democratica, pubblica ogni tre mesi una analoga classifica delle “venti città metropolitane che guidano la ripresa” in base alle nuove assunzioni: anche in questo caso il Texas è l'unico Stato presente con più di due città, ossia Austin (che occupa il primo posto in questa Top20), Dallas, e Houston.
Nel suo complesso, il Lone Star State è da anni il campione americano nella produzione dei posti di lavoro. Secondo il Bureau of Labor Statistics, la quota di gran lunga più ampia dei nuovi posti di lavoro creati negli USA nella prima fase della ripresa, cioé tra l'estate del 2009 e quella del 2011 (parliamo di 265.300 nuove assunzioni su 722.200, al netto dei licenziamenti) è stata creata in Texas, dove il tasso di disoccupazione anche nei momenti più bui della crisi si è mantenuto appena sopra all'8%, ed ora che quello nazionale è sceso all'8% quello del Texas è sceso al 7 (dato di marzo). Da ultimo, tra il marzo 2011 e il marzo 2012, in Texas sono stati creati 245.700 nuovi posti di lavoro - quasi il 60% più di quelli creati nello stesso periodo nello Stato di New York (155.300).
Da anni ci si interroga sulla “formula magica” alla base di questo fortunato “modello texano”, e l'ingradiente che più spesso viene indicato come quello determinante è la bassa pressione fiscale accompagnata da una spesa pubblica ai minimi termini. In Texas l'imposizione fiscale complessiva, basata più che altro sulla tassazione del valore aggiunto nel commercio e delle proprietà immobiliari (oltre che dell'estrazione petrolifera), è tra le più basse degli USA. L'unica imposta sul reddito personale (l'equivalente della nostra Irpef) che i texani pagano è quella federale: quella statale semplicemente non esiste. Non è l'unico caso: altrettanto accade in Florida, Nevada, New Hampshire, South Dakota, Tennessee, Wyoming, Alaska e nello stato di Washington (in quest'ultimo, un consorzio di imprese capitanato dall'avvocato Bill Gates senior, papà del fondatore di Microsoft, ha promosso, in concomitanza con le elezioni di mezzo termine del novembre 2010, una consultazione popolare volta ad introdurre l'imposta sul reddito in sostituzione di altre: gli elettori l'hanno bocciata con il 64% dei “no”). In Texas però non c'è nemmeno un'imposta sui redditi d'impresa, sui capital gain, sui dividendi. Zero.

Per contro, la spesa pubblica in Texas rappresenta poco più del 17% del PIL (tanto per intenderci: nella disastrata ed indebitata California è circa il 25%). Di conseguenza anche il welfare ed i servizi pubblici sono modesti: ma ciò non sembra dissuadere la gente dal “votare con i piedi”, in massa, per il modello texano.
“Votare”, sì. Quando la gente si sposta armi e bagagli da una parte all'altra del Paese, patria della mobilità e della “rincorsa della felicità” come diritto costituzionale, i flussi di migrazione interna vanno letti come espressione di consenso o dissenso per il modo in cui questo o quello Stato viene amministrato. Il principale spoglio per la verifica di questo “voto” è rappresentato dal mega-censimento con il quale ogni dieci anni viene minuziosamente mappata la popolazione degli USA. L'ultimo si è tenuto nel 2010, e tre giorni prima di Natale Robert Groves, direttore del Census Bureau, ne ha reso noti i primi dati. Lo Stato che ne esce vincitore è, per l'appunto, il Texas, il cui tasso di immigrazione interna è più che doppio rispetto alla media nazionale: la sua popolazione, attualmente in crescita di mezzo milione all'anno, è passata nell'ultimo decennio da 21 a 25 milioni di abitanti. Il grande sconfitto è l'altro gigante dell'Unione, la California: rimane (per ora) lo Stato più popolato – primato che detiene dal 1962 – ma la sua popolazione supera di poco i 37 milioni, neanche due in più rispetto al 2000. A questo ritmo, in meno di dieci anni i texani saranno più dei californiani.

L'esito del censimento si ripercuote anche sul piano elettorale, perché gli spostamenti demografici registrati dal Census Bureau determinano la redistribuzione decennale fra gli Stati dei seggi alla Camera dei Deputati, la quale a sua volta determina la riattribuzione di altrettanti “voti elettorali”, cioé del peso che ciascuno Stato avrà a novembre nell'elezione del presidente degli Stati Uniti. Il Texas, da decenni roccaforte repubblicana, ha guadagnato la bellezza di quattro nuovi seggi, mentre la democratica California per la prima volta da quando esiste come Stato (1850, l'epoca della Corsa all'Oro) non vede aumentare nemmeno di uno la sua attuale delegazione di 53 deputati, capitanata dall'ex speaker Nancy Pelosi.



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