mercoledì 25 novembre 2009

UN TACCHINO CHIAMATO CORAGGIO


Non sempre la Tradizione è una cosa seria.
Esempio: una tradizione un po' scema , che alcuni vorrebbero far risalire ad Harry Truman ed altri addirittura a Lincoln (non a caso rispettivamente l' "istituzionalizzatore" e l'inventore della festa nazionale del "Ringraziamento"), vede il Presidente degli Stati Uniti "impegnato" in una sorta di "concessione della grazia" al mitico tacchino, con tanto di cerimonia ufficiale (formalmente istituita da George Bush padre esattamente 20 anni fa) detta National Thanksgiving Turkey Presentation .
Ieri Barack Obama (senza prendersi sul serio, come si conviene ad una persona sana di mente in un simile contesto) ne ha "graziato" uno che - dettaglio irresistibile - si chiama Courage (Coraggio).
Nome che potrebbe sembrarvi poco calzante per un tacchino; ma in realtà, quando i Padri Fondatori si arrovellarono per scegliere un uccello come simbolo nazionale, Benjamin Franklyn si oppose all'opzione (che poi prevalse) dell'aquila, in quanto animale rapace associabile a comportamenti immorali, e sostenne l'alternativa del tacchino, proprio con la motivazione che si tratta di un uccello "goffo, ma dotato di coraggio" (se la sua tesi avesse prevalso, forse oggi il blasone presidenziale sarebbe più o meno come quello che vedete qui sopra).
Il fortunato graziato, stando alla tradizione, è stato mandato in vacanza premio a Disneyland (giuro che è vero).
E quindi la battutina del giorno è : "ci sono giorni che mi fanno ricordare perché decisi di candidarmi a questa carica; e ci sono momenti come questo, in cui do la grazia a un tacchino e lo mando a Disneyland".
Ci vuole coraggio.

martedì 24 novembre 2009

MR. NOBEL GOES TO CHINA


Oggi mio pezzo su Libertiamo.it:

Si dice che il primo viaggio di Barack Obama in Cina ha gettato le basi del cosiddetto “G2”, la nuova spartizione bipolare del mondo. I cinesi pare non siano d’accordo, ma tant’è.
Ad ogni modo, com’è andata la tanto attesa missione?

Chiedetelo a Federico Rampini:

“I giudizi sono impietosi. ‘La Cina è stata irremovibile – osserva il New York Times – Obama ha scoperto una superpotenza in ascesa che è ben decisa a dire no agli Stati Uniti’. Ancora più duro il Washington Post: ‘Obama torna dalla Cina senza risultati sui dossier importanti, dal nucleare iraniano alla rivalutazione del renminbi. E’ poco per un presidente che fece campagna elettorale promettendo grandi cambiamenti nella diplomazia. L’unica cosa che è cambiata è il tono conciliante degli Stati Uniti. Obama ha concesso molto ai suoi interlocutori. […] Pechino, a differenza dei suoi predecessori, per non irritare i padroni di casa Obama non ha cercato di incontrare qualche dissidente perseguitato. Non ha fatto il gesto di andare a messa, che George Bush fece per sollevare il tema della libertà religiosa. La Casa Bianca stavolta non ha ottenuto neppure la diretta televisiva per il dialogo tra Obama e gli studenti di Shanghai. Ha dato fin troppo e in cambio di cosa? si chiedono in America”…

Oppure, se volete il parere di uno degli esperti italiani in materia meno smaniosi di assistere a una “linea dura” di Washington nei confronti di Pechino, chiedetelo a Francesco Sisci:

“Il problema dei diritti umani, la difesa di Taiwan, la stessa spinosa questione del Tibet dopo decenni di convivenza difficoltosa con il realismo politico sono tutte state spazzate sotto il tappeto […] I giornalisti americani fingono di scandalizzarsi, quelli cinesi sono compiaciuti. In realtà è tutto un teatrino. L’accordo tra le parti c’era da tempo ed era che le questioni dei diritti e dei valori, che hanno rallentato e reso difficile per anni il rapporto tra Usa e Cina, sarebbero state messe in disparte […] Oggi quindi l’apertura di Obama alla Cina lascia gli apostoli nostrani dei diritti umani con il cerino in mano, isolati sui principi e sulla politica sostanziale, mentre questo nuovo G2, o comunque lo si voglia chiamare, comincia a veleggiare”.

Le ragioni di questa resa alla realpolitik le conosciamo sin troppo bene. La Cina è il primo sottoscrittore al mondo di buoni del tesoro USA, o, altrimenti detto, il principale creditore dell’America, ed il principale finanziatore del suo debito pubblico. Per fare una media, è un po’ come se nel primo decennio del nuovo millennio ogni cittadino degli Stati Uniti avesse preso in prestito 4.000 dollari da un cittadino cinese. Più concretamente, lasciando da parte le astrazioni statistiche da “pollo di Trilussa”, la Cina ha finanziato i salvataggi di certe grandi banche americane (e gli aiuti governativi a certe grandi industrie). Volendo, quindi, Pechino potrebbe far crollare in poche ore i mercati americani; si tratterebbe però di un “omicidio-suicidio”, poiché gli americani – più per recessione che per ritorsione – chiuderebbero in buona misura alla Cina le porte del suo principale sbocco di esportazione, trascinandola nella catastrofe.
Qualche anno fa - lo ha recentemente ricordato l’Economist – il preside di Harvard Larry Summers, già ministro del tesoro ai tempi dell’amministrazione Clinton ed oggi principale consulente economico dell’amministrazione Obama, definì questa situazione come “equilibrio del terrore finanziario”, mutuando il celebre concetto di reciproca deterrenza in base al quale, in ragione del reciproco puntamento dei missili nucleari intercontinentali, si evitò a lungo che la Guerra Fredda degenerasse in “calda” (ma anche che si sbloccasse in un senso o nell’altro).

In realtà, l’impressione è che ci si avvii verso qualcosa di peggio dell’ “equilibrio del terrore” che vigeva durante la Guerra Fredda, perché, se è vero che a quell’epoca l’obiettivo era la sopravvivenza e non la vittoria, è pur sempre vero che quell’obiettivo lo si perseguiva cercando almeno di “contenere” la controparte. Oggi invece, sia con le parole che con i fatti, l’America di Obama appare intenzionata a non “contenere” alcunché.
Si va quindi verso un “disequilibrio del terrore”?

È vero che la linea “troppo aggressiva” e “troppo poco realista” di George W. Bush (il quale quando si recò in Cina l’ultima volta, nel 2005, fece precedere il viaggio da un ennesimo incontro con il Dalai Lama alla Casa Bianca, e per di più fece prima tappa in Giappone dove tenne uno dei suoi discorsi tutti “freedom” e “democracy” invitando addirittura – somma provocazione – a prendere esempio da Taiwan) non ha prodotto, a quel che sembra, grandi risultati, nemmeno in termini di mero contenimento.

Peccato che ora il realismo del pragmatico Obama - che con tutto il garbo, l’umiltà e la prudenza di questo mondo, e con il conforto del consueto super-staff di consulenti, è andato ad ostentare concordia con questo signore qui inaugurando una nuova linea di appeasement, peraltro ampiamente anticipata lo scorso febbraio dal viaggio in Cina del neo-Segretario di Stato Hillary Clinton, che ha deluso amaramente le aspettative di chi si era lasciato sedurre dalle suggestioni della campagna elettorale - non sembri affatto dare migliori risultati.
Non è stato raggiunto nessun risultato apprezzabile né sui dossier prioritari come l’economia, il clima, il nucleare iraniano e quello nordcoreano, né su altri fronti molto importanti come il sostegno americano a Taiwan, o la situazione in Birmania, o quella in Sudan (qualcuno per caso ancora ricorda quel problemino?…).

Non parliamo, poi, della questione tibetana, sulla quale Obama si è limitato ad un laconico e malinconico “invito a dialogare con il Dalai Lama” (che lui non ha osato incontrare prima di questo viaggio, per non dispiacere lorsignori), e questo dopo aver incassato il pernacchione del governo di Pechino, che alla vigilia del suo arrivo lo ha sfrontatamente sfottuto davanti al mondo gettandogli in faccia un grottesco parallelo tra l’autonomismo tibetano di oggi e il secessionismo dei confederati nella Guerra Civile americana, invitando sardonicamente il presidente afroamericano a mandare a spasso il Dalai Lama in ossequio alla sua ammirazione per Abraham Lincoln…

Presumiamo pure che questa linea ultraremissiva sia da leggere in ottica tattica: un temporeggiare con basso profilo in attesa di recuperare energie e rialzare la testa quando ce lo si potrà permettere.Resta però da capire se potrà funzionare, e se i danni collaterali che essa sta già producendo saranno o no reversibili.

domenica 8 novembre 2009

REAGAN E LA CONQUISTA DI BERLINO


Mio pezzo su Libero di oggi.

Quella che segue è una versione leggermente più ampia (quella originale, non sacrificata dalle dimensioni del cartaceo che pure la redazione ha generosamente forzato). La regalo ai lettori di JEFFERSON:

«I testicoli dell’Occidente»: così Nikita Krushev definì Berlino nel 1956. Nel senso che, si vantò, «ogni volta che voglio far urlare l’Occidente, gli do una strizzatina». Era vero, e lo fu fino al 12 giugno del 1987, quando Ronald Reagan tenne un comizio davanti alla Porta di Brandeburgo.
L’autore di quello storico discorso fu uno speechwriter appena trentenne: Peter Robinson, un neolaureato e neoassunto alla Casa Bianca, che si era fatto le ossa alla National Review, la prestigiosa rivista conservatrice diretta da William E. Buckley. Nell’aprile 1987, Robinson si aggregò alla missione dei Servizi Segreti addetta a preparare l’imminente viaggio del presidente in Europa.
Ne approfittò per parlare con la gente, per carpire il sentire comune. Incontrò anche John Kornblum, il più alto funzionario americano a Berlino; il quale gli consigliò di tenersi alla larga dall’argomento del Muro. Robinson era determinato a fare l’esatto contrario.
Tornato a Washington, buttò giù la prima bozza del discorso, che conteneva questo passaggio: «Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace, venga a Berlino. Se davvero vuole il benessere dell’Unione Sovietica e dell’Europa orientale, venga a Berlino. Venga qui davanti a questo muro. Herr Gorbaciov, machen Sie dieses Tor auf». La frase finale in tedesco sarebbe stata poi sostituita con la traduzione, «apra questo cancello»; quella più celebre sull’abbattimento del Muro sarebbe stata aggiunta in una versione di poco successiva. In quel passaggio il giovane Robinson aveva colto l’essenza della politica estera reaganiana, basata sulla ottimistica ed ostinata convinzione che la Guerra Fredda non fosse destinata a durare in eterno, e che spettasse agli Usa chiudere quel capitolo a modo loro.

Nel preparare la sua candidatura alle primarie presidenziali repubblicane del 1979, l’allora ex governatore della California aveva spiegato ai suoi consulenti che la sua visione della gestione del rapporto con i sovietici era "semplice, qualcuno direbbe semplicistica: noi vinciamo e loro perdono".
Bisognava però vincere senza guerreggiare. Negli anni Cinquanta si era passati dalla bomba a fissione a quella a fusione, la cui potenza (sperimentata dagli americani con l’annientamento dell’atollo di Bikini nel marzo del ’54) era settecentocinquanta volte superiore a quella dell’ordigno sganciato su Hiroshima. E questo aveva sgombrato il campo da qualsiasi ipotesi di guerra “calda” che potesse concludersi con qualcosa che non fosse la “fine di mondo” del Dottor Stranamore.
Reagan durante il suo primo mandato agì da falco. Raddoppiò il budget del Pentagono costringendo il Cremlino ad una rincorsa economicamente e tecnologicamente insostenibile. Soprattutto, si mostrò intenzionato a por fine all’“equilibrio del terrore”, la garanzia reciproca di non belligeranza fondata sul deterrente dell’olocausto nucleare. Un paradosso che Reagan aveva sbeffeggiato con la metafora di due pistoleri «uno di fronte all’altro in un saloon, che si puntano reciprocamente la pistola alla testa... per sempre». La sua risposta fu lo “scudo stellare”. Una volta chiarito chi fra i due contendenti stava giocando in attacco, Reagan iniziò a negoziare. Nel vertice di Reykjavik, nell’ottobre 1986, Gorbaciov aveva chiesto che gli Usa abbandonassero qualunque sviluppo dello “scudo stellare” non limitato alla ricerca di laboratorio. Reagan aveva invece proposto di negoziare un taglio dei missili a gittata intermedia. Nessuno dei due si era schiodato dalle rispettive posizioni e il summit si era concluso con un nulla di fatto. Ma ci erano andati vicini. Si sarebbero dovuti incontrare per la terza volta a Washington a dicembre.

Nel giugno 1987 il presidente avrebbe fatto il suo ultimo viaggio ufficiale in Europa. L’ultima tappa era Berlino. Gorbaciov, che quell’anno aveva pubblicato il libro Perestroika e stava rubando all’anziano presidente americano la parte in commedia di “uomo del cambiamento”, non era tipo da dare “strizzate” in stile krushioviano; ma nemmeno da Reagan si attendevano gesti particolarmente aggressivi. Reagan comprese, invece, che in quel momento l’esigenza principale era quella di mostrare che il Mondo Libero aveva ancora un leader ben intenzionato a vincere, capace all’occorrenza di tirare fuori la sua grinta da cowboy.
E infatti, appena lesse la bozza del discorso di Robinson, gli piacque. Non piacque invece nemmeno un po’ al Dipartimento di Stato, il quale condusse una campagna intensiva per boicottarlo; poi, quando fu chiaro che Reagan voleva “quel” discorso, i funzionari del National Security Council tentarono una “revisione” finale che cancellava l’intero paragrafo sull’abbattimento del muro. Ma l’ultima parola spettava al presidente, che decise di ripristinare quel passaggio: «C’è un solo gesto che i sovietici possono fare che sarebbe inequivocabile, che farebbe avanzare drammaticamente la causa della libertà e della pace. Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace… apra questo cancello! Mr. Gorbaciov... Mr Gorbaciov…Tiri giù questo muro».

«La reazione di Mosca fu inaspettatamente blanda», ha scritto John Lewis Gaddis, autorevole storico della Guerra Fredda. “Malgrado la sfida al simbolo più vistoso dell'autorità sovietica in Europa, la programmazione per il vertice di Washington proseguì regolarmente”. A dicembre, Reagan e Gorbaciov firmarono un trattato che prevedeva lo smantellamento dei missili nucleari a gittata intermedia in Europa. Il discorso di Berlino parve essere stato più che altro inoffensivo. Ma quando di lì a due anni il Muro crollò, le immagini di quel proclama di Reagan vennero mandate in onda a ripetizione.

Due saggi appena usciti , The Rebellion of Ronald Reagan – a History of the End of the Cold War”, del corrispondente del Los Angeles Times James Mann (lo stesso che cinque anni fa si fece notare con “The rise of the Vulcans”, una monografia sull’entourage di George W. Bush), e “Tear Down This Wall: A City, a President, and the Speech that Ended the Cold War”, del redattore di TIME Romesh Ratnesar (intervistato nel video qui sopra), ricostruiscono accuratamente quell'evento. In particolare il primo, quello di James Mann, racconta di come Reagan si ribellò alla realpolitik del Dipartimento di Stato, del National Security Council e di certi ambienti conservatori.

Ma in realtà la sua ribellione si rivolgeva all’intero establishment occidentale. A settembre, il Times ha pescato tra i documenti sovietici desecretati dopo la fine della Guerra Fredda la trascrizione di un incontro riservato tra Margaret Thatcher e Michail Gorbaciov il 23 settembre del 1989 .
Stando alla carta, la Lady di ferro disse a Gorbaciov che l’Occidente non voleva che il Muro crollasse: «La riunificazione della Germania non è nell’interesse della Gran Bretagna, né dell’Europa Occidentale. Potrebbe sembrare il contrario dalle dichiarazioni pubbliche, o dai comunicati che vengono diramati nei vertici della Nato; ma non è il caso di prendere sul serio quelle affermazioni. In realtà noi non vogliamo un Germania unita. Ci porterebbe a modificare i confini del dopoguerra, e noi non ce lo possiamo permettere, perché minerebbe la stabilità dell’intero scenario internazionale mettendo a repentaglio la nostra sicurezza».

Ventidue anni dopo Barack Obama, benché invitato, non sarà a Berlino per prendere parte alle celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro. Pare sia troppo impegnato nei preparativi del suo viaggio in Cina, il nuovo antagonista da “contenere”.

PS - Day-After Update: Sul Wall Street Journal di oggi, Tony Dolan, l'allora capo di Robinson, ricorda alcuni succulenti dettagli di quella "lotta all'ultimo sangue per mantenere nel testo del discorso quelle quattro semplici parole: tiri-giù-quel-muro".