martedì 27 ottobre 2009

LA GUERRA DEI DRONI

Mio pezzo su L'Occidentale di oggi:

“Top Gun”: chi è stato giovane negli anni Ottanta ricorda inevitabilmente con un certo affetto quel puerile ma irresistibile cult-movie, in cui Tony Scott romanzava come in un fumetto le spericolate gesta dei piloti militari della californiana United States Navy Fighter Weapons School (meglio nota come Top Gun, per l’appunto). Quella scuola è realmente esistita: era il più importante dei Replacement Air Group, i centri di perfezionamento creati dal Pentagono nei primi anni Settanta, alla luce delle disavventure del Vietnam, in cui i piloti più esperti addestravano i novellini.

Oggi quel film, che nel 1986 fece la fortuna di Tom Cruise, si avvia a divenire una sorta di documento di un’era passata. La base “Top Gun”, che negli anni Novanta è stata trasferita dalla California nel vicino Nevada, si sta trasformando in qualcosa di molto diverso da quello che Hollywood mostrò al mondo un quarto di secolo fa. L’aviazione e la marina stanno investendo sempre più nell’impiego dei cosiddetti droni, gli aerei da guerra senza esseri umani a bordo, pilotati via satellite da terra.
Ovvio: se si vuole mettere il meno possibile a repentaglio la incolumità di un pilota, farlo addestrare da veterani sopravvissuti all’esperienza del combattimento reale è utile, ma tenerlo al sicuro a terra, davanti ad un computer con in mano un joystick, magari dall’altra parte del mondo rispetto alla zona bombardata, è infinitamente meglio.

Ma la sicurezza del pilota non è tutto. Secondo i fautori di questo nuovo sistema, l’impiego dei droni porta anche a ridurre il numero di vittime civili, poiché, a differenza del tradizionale caccia che doveva bombardare con “toccata e fuga” per sottrarre il prima possibile il pilota ai colpi dell’artiglieria contraerea, il drone può permettersi di volare sopra il bersaglio per prendere bene la mira con tutta calma, per ore e ore, anche per un’intera giornata. Questo argomento non convince i sostenitori della cosiddetta counterinsurgency, ossia la tecnica adottata dal generale David Petraeus con il surge che nel 2007 ha recuperato l’Iraq dall’orlo dell’abisso, e che attualmente il generale Stanley McChristal vorrebbe tentare anche in Afghanistan. Costoro sostengono che nel combattere guerre asimmetriche, cioè nell’usare un esercito regolare contro terroristi e guerriglieri, è decisivo porre la popolazione civile sotto la protezione delle proprie truppe, anziché renderla vittima accidentale delle proprie bombe, poiché nel primo caso è incoraggiata a divenire preziosa alleata, e nel secondo caso è di fatto spinta ad appoggiare il nemico. Ovviamente secondo questa visione è bene puntare il più possibile sulle truppe di terra, e il meno possibile sui bombardamenti aerei, droni o non droni.
Ma i bombardamenti con i droni hanno finalmente decapitato i vertici di Al Qaeda, per cui a Washington vengono visti sempre più come una soluzione vincente, oltre che poco rischiosa. E tanto basta per investirvi sempre più risorse. Inizialmente, a pilotare i droni erano i normali piloti di caccia, dislocati solo temporaneamente nella base in Nevada; di recente, però, si è passati a destinare là stabilmente i piloti migliori. Lo scorso 25 settembre sono entrati in servizio i primi otto piloti addestrati esclusivamente per questa speciale mansione: ”un nuovo tipo di Top Gun per un nuovo tipo di guerra”, come titolava il mese scorso un reportage di TIME.
Il Colonnello Eric Mathewson, che dirige la scuola di addestramento, intervistato giusto ieri sulla rivista delle forze armate “Stars and Stripes” proclamava orgoglioso: “siamo alle prese con una transizione culturale, paragonabile a quella dalla cavalleria ai carri armati”. Solo che in questa occasione si tratta di rinunciare all’ebbrezza del volo, per cui nessuno si offre volontario. E così, d’ora innanzi, ogni anno il Pentagono pescherà d’autorità cento tra le reclute più meritevoli dalle ordinarie accademie dell’aviazione, e le dirotterà, loro malgrado, in questo corso per piloti virtuali.

Il punto più delicato di questa storia è che il programma di guerra aerea con i droni ha un suo “lato oscuro”, una sua spregiudicata diramazione non ufficiale: così come negli anni Sessanta il Pentagono conduceva ufficialmente la guerra in Vietnam, e la CIA guerreggiava “ufficiosamente” nei cieli del Laos con l’operazione segreta “Air America”, così oggi, all’operazione ufficiale gestita dal Pentagono nei cieli dell’Afghanistan e dell’Iraq, si affianca, da un paio d’anni, una operazione “coperta”, anche stavolta gestita dalla CIA, in Pakistan, quindi anche in questo caso in un paese con il quale gli USA non sono ufficialmente in guerra (nonostante sia lì che si annida l’epicentro dei guai della regione).

A dire il vero parlare di operazione coperta è quasi ridicolo: Henry Crumpton, un ex dirigente dell’Agenzia, l’ha recentemente definita “uno dei segreti meno segreti della CIA”. Notizie abbastanza precise trapelano infatti da molti mesi sui grandi media; anche se solo nelle ultime settimane la stampa sta adeguatamente approfondendo l’argomento.

La settimana scorsa, la giornalista del New Yorker Jane Mayer, una che negli ultimi anni si è fatta notare con inchieste molto critiche sui metodi usati dalla CIA nell’antiterrorismo, ha pubblicato la più approfondita ed accurata analisi sino ad oggi condotta su questa questione. L’articolo del New Yorker sta facendo molto discutere (in Italia nel ha parlato Christian Rocca sul Foglio, giovedì scorso), perché riferisce fatti non banali. In sintesi: in dieci mesi di amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno bombardato il Pakistan più volte di quanto lo avevano fatto negli ultimi tre anni dell’amministrazione Bush.
I primi due bombardamenti Obama li autorizzò appena tre giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca. Ai primi di giugno ne aveva ordinati sedici, quindi mediamente circa uno alla settimana. Sotto Bush, i bombardamenti sul Pakistan erano stati tre nel 2007, e trentaquattro nel 2008. Sotto Obama sono stati una trentina nel primo semestre del 2009, e ad oggi ammontano a quarantuno. Secondo un recente ed accuratissimo studio della New America Foundation, sarebbero state uccise più di seicento persone, e circa un terzo di esse sarebbero civili innocenti.

Dati sorprendenti per molti (anche per la stessa Mayer) solo perché in questi mesi i giornalisti hanno preferito continuare a fissare il “santino” elettorale del 44esimo presidente piuttosto che la realtà dei fatti. Ma in realtà c’è poco da stupirsi.
Il primo agosto del 2007, quando il bombardamento del Pakistan con i droni era ancora solo uno studio segretamente commissionato alla CIA dall’amministrazione Bush, l’aspirante candidato democratico Barack Obama, con lo stesso discorso programmatico con il quale puntò maldestramente tutto sulla inopportunità del surge e sul ritiro immediato dall’Iraq, precisò che lo sforzo militare andava invece intensificato sull’Afghanistan e sul Pakistan.
Quest’ultima precisazione fece sobbalzare tutti sulle sedie: il Pakistan è un paese alleato, non nemico. Eppure, in pratica, Obama dichiarava pubblicamente la propria intenzione, qualora eletto presidente, di colpire anche lì pur di uccidere i terroristi di Al-Qaeda.

Quella sortita venne immediatamente esecrata, non senza una certa dose di ipocrisia, da tutti gli altri contendenti alla nomination democratica, Hillary Clinton in testa; ma Obama non rinnegò mai nulla, ed anzi, una volta ottenuta la candidatura, nei testa a testa televisivi con il candidato repubblicano John McCain nell’autunno del 2008 rivendicò quella sua posizione come prova della sua intenzione di dare una svolta rispetto all’era Bush: fino ad ora, spiegò, i terroristi hanno avuto dei rifugi sicuri in Pakistan, “ma questa storia cambierà quando sarò io il presidente”. Una geniale bugia, poiché in realtà a quell’epoca l’amministrazione Bush stava già bombardando i “rifugi sicuri” dei terroristi in Pakistan… ma i repubblicani erano impossibilitati a rivendicarlo, trattandosi di operazione “segreta” e di dubbia legalità. Obama non ha fatto altro che intensificare l’operazione.

Ad ogni modo, bushiani od obamiani che siano, questi bombardamenti di nuova generazione sono una tattica, non una strategia.
Il che non può essere una critica nei confronti della CIA, alla quale adiopiacendo non compete elaborare strategie. Quello, semmai, è il mestiere del presidente.
I droni sono uno strumento come un altro per fare la guerra: consentono di farla in circostanze in cui in passato sarebbe stato impossibile o troppo rischioso, ma non risolvono né consentono di eludere nessuno dei quesiti di fondo che ancora attendono risposta per poter definire quale sia, in sostanza, la “Dottrina Obama”. In quali casi si interviene con la forza, e in quali no? E con quali alleati? E soprattutto, con quali fini? Antiterrorismo o promozione della democrazia? Interesse nazionale o diritti umani universali? Egemonia o sopravvivenza?
E questo è, forse, il punto cruciale: ancora una volta, l’attuale presidenza appare incentrata sulla tattica, ma priva di una vera strategia. Naviga a vista. A lungo andare, può costarle molto caro.

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