giovedì 31 dicembre 2020

TAKE ME HOME


 
Era il 30 dicembre 1970: mezzo secolo fa. John Denver aveva appena 27 anni e non era certo una superstar. L’anno prima una sua canzone, Leaving on a Jet Plane, aveva avuto un buon riscontro nella interpretazione del trio folk Perer, Paul & Mary, e lui sulla scia di quel primo successo come compositore aveva tentato la fortuna anche come interprete, riuscendo a pubblicare con la RCA ben tre album in un anno, nessuno dei quali però aveva ottenuto grandi attenzioni. Nel dicembre del 1970 stentava ancora a riempire i 200 posti del Cellar Door, il club di Washington DC nel quale, in quella settimana fra Natale e Capodanno, era in cartellone tutte le sere come headliner.

Ancor più alle prime armi era il duo locale “Fat City” che in quelle serate post-natalizie si esibiva al Cellar Door come sua spalla: formato da Billy Danoff and Taffy Niver, marito e moglie poco più che ventenni, due sconosciuti di belle speranze per i quali era già molto aprire per un artista di serie B come John Denver. Il giorno prima, il 29 dicembre, i due gli avevano fatto ascoltare una canzone ancora incompleta che avevano abbozzato quasi per gioco mentre guidavano attraverso la campagna del Maryland per andare a far visita a dei parenti. 

Nonostante il genere non fosse affatto quello con il quale Danoff e Niver si misuravano abitualmente, per una volta avevano partorito una canzone country, sia per struttura musicale che per il testo pieno di riferimenti al mondo rurale dei monti Appalachi. I due erano talmente soddisfatti della loro composizione che sognavano di proporla a Johnny Cash. 

Nemmeno John Denver era un cantautore country. Veniva dalla gavetta nei club folk fricchettoni di Los Angeles, e registrava negli studi RCA di New York: in pratica i “meno country” fra tutti i circuiti musicali degli Stati Uniti. Il suo stile era più riconducibile al nuovo folk metropolitano alla Simon & Garfunkel che andava tanto di moda in quel passaggio fra gli anni Sessanta e i Settanta, con ammiccamenti pop-rock vagamente beatlesiani (il suo primo album conteneva una cover di When I’m Sixty-Four, il terzo una di Eleanor Rigby).

Eppure per quella canzone country ancora allo stato embrionale Denver aveva avuto un colpo di fulmine. I tre avevano fatto l’alba per completarla e arrangiarla, e l’indomani, in quella fatidica serata del 30 dicembre, fu lui a cantarla per la prima in pubblico.

Il pubblico andò in visibilio: non solo orecchiarono subito il ritornello e si misero a cantarlo, ma alla fine seguirono cinque minuti di standing ovation. Quella canzone aveva prodotto sin dal suo primissimo debutto quella magia per la quale ciascuno di noi la conosce, per esperienza personale: il trascinamento della folla in un rito liberatorio. Recentemente Dan McLaughlin, commentatore della National Review, ha così sintetizzato in un tweet:
Non capisci veramente che razza di inno è Take Me Home, Country Roads di John Denver finché non a ascolti dal vivo – cantata da chiunque, in qualunque contesto. Qualsiasi band da bar appena decente è in grado di suonarla. È vertiginosa ed evocativa, tutti conoscono le parole e una volta che il pubblico parte con il coro, le persone dimenticano l’imbarazzo.

Subito dopo le feste, John Denver tornò a New York e si affrettò a registrare il brano. Danoff e Nivert cantarono i cori, come quella sera al Cellar Door. L’arpeggio di banjo venne affidato a Eric Weissberg, lo stesso musicista che l’anno seguente avrebbe registrato un altro brano destinato a rappresentare musicalmente il mondo selvaggio degli Appalachi nell’immaginario collettivo: il  “duello di banjo” del film Deliverance (in italiano Un tranquillo weekend di paura).

Take Me Home, Country Roads uscì come singolo il 12 aprile del 1971. Ad agosto giunse al numero 2 della classifica generale di Billboard Hot 100 (seconda solo a How Can You Mend a Broken Heart dei Bee Gees), avendo già venduto un milione di copie. Negli stessi giorni Loretta Lynn, una delle più grandi dive del country, ne stava già registrando la sua versione (pressoché identica all’originale, solo senza percussioni: quasi come se fosse un pezzo bluegrass) per il suo diciottesimo album You’re Lookin’ at Country.

Era la prima di oltre duecento cover di quella che divenne immediatamente, e non ha mai smesso di essere, una delle canzoni country più popolari della storia, e una delle pochissime ad essere conosciute e amate da tutti anche fuori dagli Stati Uniti. È un cavallo di battaglia per i cori tra ubriachi all’Oktoberfest di Monaco di Baviera e persino in Cina è conosciutissima sin dagli anni Ottanta; nel 2018 una versione eseguita da una sconosciuta band newyorkese di nome Spank è stata utilizzata come colonna sonora del videogame distopico Fallout 76, che è ambientato in West Virginia: il video su Youtube attualmente ha 36 milioni di visualizzazioni.


È un bel paradosso quello che vede primeggiare in modo tanto eclatante una canzone country scritta e interpretata da dei perfetti outsider: il circuito dell’industria musicale di Nashville è infatti da sempre ossessionato dal legame con le proprie radici e le proprie tradizioni, e soprattutto è molto geloso del proprio controllo sui processi creativi e distributivi di tutto ciò che viene venduto come “country”.
 

John Denver dal canto suo, pur dovendo il proprio successo a quella canzone country, non abbandonò mai il proprio stile pop-folk, e registrò ben poche altre canzoni del genere; l’unica altra ad aver avuto un buon successo fu Thank God I’m a Country Boy, al n.1 in classifica nel 1975. In quello stesso anno la Country Music Association (istituzione che sta alla musica country come l’Academy sta al cinema) gli assegnò il premio più prestigioso cui un artista country possa ambire, quello di entertainer of the year; ma la sera della premiazione Charlie Rich, il cantante cui venne affidato il compito di annunciare “the winner is”, dopo aver letto il nome di John Denver diede polemicamente fuoco al biglietto in segno di disprezzo. 


Razionalmente, non dovrebbe essere tanto difficile accettare il fatto che quella canzone è uno splendido, riuscitissimo esempio di canzone country anche se l’interprete non è un cantante country. Ma emotivamente i due piani vengono spesso confusi, per una ragione piuttosto evidente: in questo caso l’interprete 
è la canzone. Senza di essa, John Denver così come lo conosciamo non sarebbe mai esistito. Non a caso l’autobiografia che pubblicherà nel 1994, tre anni prima di morire in un incidente aereo, si intitolerà proprio Take Me Home.

Quanto alla Country Music Association: nel 2016 ha si è fatta perdonare quell’episodio increscioso scegliendo proprio Take Me Home, Country Roads, assieme a On the Road Again di Willie Nelson e a I Will Always Love You di Dolly Parton, per un mashup interpretato da trenta star di Nashville, per celebrare il proprio cinquantennale.


C’è poi un paradosso nel paradosso: Take Me Home, Country Roads è di gran lunga la più celebre canzone a parlare dello Stato del West Virginia (ammesso che ne esistano altre), ma in realtà i suoi autori, pur avendo scritto quella che sembra essere una dichiarazione d’amore per quei luoghi, non vi avevano mai messo piede.
Come detto, l’ispirazione era venuta a Danoff e Niver durante un viaggio in Maryland; ma le tre sillabe di Ma-ry-Land non calzavano perché la metrica della canzone ne richiedeva quattro. Danoff in un primo momento aveva pensato di scrivere “Massachusetts”, lo Stato dove era cresciuto, ma alla fine la scelta era caduta sul West Virginia solo perché suonava meglio (“per quanto ne sapevo poteva anche essere in Europa”, ammetterà molti anni dopo). Lo stesso John Denver all’epoca non aveva alcuna esperienza del West Virginia: il suo luogo del cuore elettivo era invece duemila chilometri più a ovest, in Colorado (in omaggio alla cui capitale si era scelto “Denver” come cognome d’arte, essendo pressoché impronunciabile quello vero, Deutschendorf).
La canzone quindi non nacque da un’esperienza autentica del luogo che menziona; e in fin dei conti, a dispetto dell’incipit che contiene due riferimenti geografici virginiani ben precisi (il fiume Shenendoah e i Monti Blue Ridge), essa parla in realtà di un luogo immaginario. Forse anche da qui deriva il suo successo planetario: ben pochi sanno dov’è e com’è fatto il West Virginia, ma ognuno di noi si porta dentro la nostalgia di un qualche “altrove” lontano dalla città, un po’ sperduto, che ama come fosse “quasi un paradiso” e dove anela tornare per potersi “sentire a casa”. 

Uscito su Rolling Stone

lunedì 14 dicembre 2020

L'ERA BIDEN E IL FATTORE T

 

E così, nel bel mezzo della più grave pandemia dell’ultimo secolo, è accaduto ciò che a gennaio sembrava a dir poco improbabilee che non accadeva dai tempi di Jimmy Carter (cioè da 40 anni): la Casa Bianca ha cambiato colore politico dopo soli quattro anniIl voto di del Collegio elettorale verrà ratificato dal Congresso solo il 6 gennaio, ma da oggi Joe Biden è ufficialmente il vincitore di questa elezione. Finiti gli scrutini, terminati i riconteggi, concluse le dozzine di cause nei tribunali di ogni rango, possiamo finalmente osservare in controluce questa elezione, sulla base di numeri definitivi e di dati certi.

Nelle urne Biden ha ricevuto ben 81.284.716 voti popolari, divenendo il presidente più votato della storia; anche Trump ne ha ricevuti moltissimi, 74.223.367, divenendo il secondo candidato più votato della storia dopo Biden (nonché lo sconfitto più votato della storia). Il voto popolare, però, rileva esclusivamente in funzione del passaggio successivo, cioè quello nel Collegio elettorale, e lì l’elezione di Biden è avvenuta esattamente con gli stessi voti rispetto a quella di Trump quattro anni fa (306 contro 232). 

È vero che Trump nel 2016 ottenne quella vittoria pur avendo perso di quasi tre milioni nel voto popolare, mentre Biden ora ha ottenuto gli stessi 306 voti elettorali avendo battuto Trump di oltre sette milioni di voti. Se ci fermassimo a questo, potremmo dire che a parità di voti nel Collegio elettorale la vittoria di Biden è stata molto più ampia. Ma il sistema del Collegio fa sì che i voti siano rilevanti soprattutto in base a dove (in quale dei 50 stati) li si riceve: ha poca importanza il voto negli stati che si considerano già vinti (o persi) a priori, ed è invece cruciale il voto negli stati più in bilico, che fanno da ago della bilancia.

Ecco perché tre settimane fa il Washington Post titolava “Gli elettori che hanno consegnato la vittoria a Biden negli stati chiave non basterebbero per riempire il Rose Bowl, e questo influenzerà il suo modo di governare” (il Rose Bowl è lo stadio di Pasadena, che ha poco più di 90mila posti). La ragione di questa lettura è la medesima che quattro anni fa portava a evidenziare che Trump andava alla Casa Bianca “grazie a 80mila voti in tre stati”.

Le tre vittorie con margine più esiguo (meno di un punto percentuale di vantaggio) Trump le aveva conseguite in Michigan per 10.704 voti (con un margine dello 0,22%), in Pennsylvania per 44.284 voti (+0,72%), e in Wisconsin per 22.748 (+0,76%). Analogamente, Biden non avrebbe vinto senza i voti elettorali di Arizona, Georgia e Wisconsin, nei quali l’ha spuntata, rispettivamente, per 10.457, 11.779 e 20.682 voti popolari (con margine, rispettivamente, dello 0,31%, dello 0,24% del 0,63%). Politicamente la vittoria di un candidato democratico è eclatante in stati come la Georgia e l’Arizona, nei quali la vittoria dei repubblicani era la imperturbabile normalità ormai da decenni; ma sul piano quantitativo si tratta di vittorie fragilissime: nel complesso in quei tre stati 42.918 voti in tutto, poco più della metà di quelli grazie ai quali Trump vinse nel 2016. Sedendovi solo quegli elettori, lo stadio di Pasadena sarebbe mezzo vuoto: li si potrebbe accomodare anche ora, in tempo di distanziamento sociale.

(via The Washington Post)

Vi sono poi altri risultati che potrebbero influenzare ancor di più il modo in cui Biden governerà. Quello più importante non è ancora deciso: si tratta della maggioranza al Senato, che i democratici potrebbero non aver espugnato. Dipende tutto da come andrà il ballottaggio che si concluderà il 5 gennaio per entrambi i seggi senatoriali in Georgia: se i candidati del suo partito non la spuntassero Biden si troverebbe sotto scacco da parte di Mitch McConnell, attuale leader repubblicano al Senato, abile e spregiudicato stratega. Alla Camera invece il partito di Biden la maggioranza l’aveva e l’ha mantenuta, ma perdendo molto terreno: alle ultime elezioni (quelle del 2018) i democratici avevano ottenuto 235 seggi su 435, ora invece ne avranno non più di 224: cioè una maggioranza di appena 6, perdendone una dozzina rispetto a 2 anni fa (qui i sondaggi hanno fallito miseramente: pronosticavano che ne avrebbero guadagnati una buona quindicina).

fra appena due anni si rivota: per le elezioni di metà mandato, che tendono a premiare quasi sempre il partito di opposizione ma ultimamente lo hanno premiato di più quando si trattava del Partito repubblicano. Quando Obama si insediò nel 2009 i democratici avevano 59 senatori e 256 deputati, e i repubblicani venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile la cover story di Time sul tema); ma appena due anni dopo, alle Midterm del 2010, i repubblicani realizzarono la loro più grande vittoria elettorale parlamentare dell’ultimo secolo, strappando ai democratici la bellezza di 66 seggi, perdendone tre quindi con un vantaggio netto di 63. I democratici in quell’occasione tennero al Senato; ma lo persero alle successive Midterm, quelle del 2014, nelle quali persero anche ulteriore terreno alla Camera (i repubblicani vinsero 247 seggi, un guadagno netto di 13). Con questi precedenti, può Biden aspettarsi qualcosa di buono dalle Midterm del 2022?

(via Forbes)

A questo si aggiunge un problema senza precedenti: il fattore T

Trump non ne vuole sapere di seguire la consuetudine che vede uscire di scena lo sconfitto alle presidenziali. Sta facendo di tutto per non abbandonare la ribalta. Dopo il 20 gennaio, quando non potrà più farlo dalla Casa Bianca, potrà inventarsi qualcos’altro; magari rimettendo in cantiere il progetto, al quale si dice lavori da anni, di una media company tutta sua che faccia concorrenza da destra a Fox News. In ogni caso, sembra puntare a una campagna elettorale permanente per costruirsi un inedito ruolo di leader dell’opposizione che mai nessuno sconfitto aveva rivestito nella storia degli Stati Uniti. Difficile dire fino a che punto ci riuscirà; ma ancora più difficile è prevedere quanto questo potrà nuocere a Biden (posto che è stando all’opposizione, senza il peso di responsabilità di governo, che un personaggio come Trump riscuote più consensi), e quanto invece gli potrà giovare. Dopotutto ci siamo ripetuti mille volte che questa elezione è stata un referendum su Trump, e che il voto per Biden è stato soprattutto un voto contro Trump; il fatto che Biden sia andato meglio rispetto a come il suo partito è andato nell’elezione al Congresso (e simmetricamente Trump sia andato peggio del Partito repubblicano) non sembra certo smentire questa lettura. Chissà, forse avere ancora lo spauracchio Trump in scena nei prossimi mesi e nei prossimi anni potrebbe paradossalmente servirgli da sponda.

Infine c’è un problema che è sotto gli occhi di tutti, ma del quale si parla poco e sottovoce, probabilmente perché non c’è un modo elegante per dirlo: Biden ha 78 anni suonati, sono tanti e li dimostra tutti.  Quando nel 2008 John McCain veniva accusato dall’entourage Barack Obama di essere troppo anziano per diventare presidente, ne aveva 72.  Nessuno è disposto a credere che nel 2024 si potrà candidare per quel secondo mandato che normalmente sarebbe fisiologico. La sua rischia perciò di essere una presidenza zoppa sin dal primo giorno; a meno che non se la giochi facendosi forte del fatto che, proprio perché è a un passo dalla pensione, non ha più niente da perdere.  

Trump invece ne compirà 78 proprio nel 2024, ed essendo stato alla Casa Bianca per un solo quadriennio avrebbe il diritto di ricandidarsi per un secondo, come già indica di voler fareSempre che prima torni a candidarsi alle primarie del Partito repubblicano, e riesca nuovamente a vincerle. Per ora sta raccogliendo un sacco di soldi, che è una cosa che nella vita ha imparato a fare benino. Poi si vedrà.

uscito su Wired