lunedì 17 febbraio 2014

FOOTLOOSE, OVVERO COME SOGNAVA L'AMERICA NEL 1984

Nel 1980, in un insignificante paesucolo di seicento anime nel Sud dell’Oklahoma di nome Elmore City, uno studente del liceo si mise alla testa di una piccola ma pittoresca campagna per ottenere che il locale consiglio scolastico, nonché le locali autorità ecclesiastiche, acconsentissero finalmente a che nel locale liceo si tenesse il prom, il ballo di fine anno, come in tutti i licei d’America, nonostante una locale legge ultrabigotta risalente al 1898 vietasse il ballo in luoghi pubblici. Il fatto che il consiglio scolastico fosse presieduto dal papà della sua fidanzatina rendeva il tutto particolarmente romanzesco. Alla fine il ragazzo riuscì nell’intento e gli adolescenti di Elmore City ebbero finalmente il loro sospirato ballo, nel quale poterono scatenarsi come negli anni precedenti non avevano mai potuto fare, ma avevano potuto sognare guardando al cinema “Grease” e “La Febbre del Sabato Sera”.

Se vi sembra di aver già sentito questa storiella da qualche parte, non sbagliate: essa attirò l’attenzione dei media nazionali, e di conseguenza anche quella di un giovane cantautore e sceneggiatore di nome Dean Pitchford il quale ne ricavò il soggetto per quello che era destinato a divenire uno dei film più emblematici di quei ruggenti anni Ottanta.

Nella sceneggiatura il paesino venne ribatezzato “Bomont”, pur lasciandolo in Oklahoma (le riprese sarebbero però girate nello Utah); il protagonista divenne un ragazzo di città, anzi metropolitano, appena trasferitosi da Chicago con pochissima voglia di piegarsi alle regole della piccola provincia; il suo antagonista e padre della sua ragazza è addirittura il pastore della chiesa del paese; ed il divieto di ballare da antico divenne di recente adozione, dopo che alcuni adolescenti erano morti in un incidente d’auto al rientro da una festa un po’ troppo allegra.

Balletti a parte, la scena clou è quella in cui il protagonista sfida le autorità sul loro stesso terreno, dibattendo pubblicamente in consiglio comunale il fatto che la Bibbia non condanni, ma celebri come buona cosa la danza: il Salmo 149 ("Lodate il suo nome con la danza"), ma anche la storia di Davide che ballò dinnanzi a Dio, e l' Ecclesiaste, e così via.

Un sano pubblico confronto che risolve tutto nel modo più democratico ma anche più meritocratico: un classico dell’american dream.

E così persino in quel filmetto leggero e frivolo resta intrappolato, come un insetto nell’ambra, uno scorcio di quella America ottimista e piena di fiducia in se stessa, la stessa che si accingeva a rieleggere trionfalmente il presidente che proclamava con convinzione che (dopo il buio degli anni Settanta) era finalmente “di nuovo mattino”.

Ecco: se avete nostalgia di quegli anni, questo è il vostro momento. Footloose fa parte, per dirla con il sito Mental Floss, delle “trenta cose che compiono trent’anni nel 2014” (assieme, fra l’altro, al computer Macintosh, all’album “Born in the USA” di Bruce Springsteen, al videogioco Tetris, al telefilm “I Robinson”). Ufficialmente succede proprio oggi, giacchè debuttò nelle sale cinematografiche americane il 17 febbraio del 1984. Ebbe un notevole successo anche se dovette vedersela con molti altre pellicole che nello stesso anno si contesero i favori del pubblico più giovane (da “Karate Kid” a “Indiana Jones e il Tempio Maledetto”, da “Ghostbusters” a “Un Piedipiatti a Beverly Hills” a “Gremlins”. Il 1984 è un anno di eruzione vulcanica hollywoodiana).

Concepito con forte componente di musica e danza, sulla scorta del grande successo di “Flashdance” uscito l’anno prima, lasciò il segno anche la sua colonna sonora, per la quale lo stesso Dean Pitchford (che aveva già collaborato a quella di "Saranno Famosi") scrisse anche tutti i testi delle canzoni. Il disco raggiunse il primo posto della classifica di Billboard ponendo fine alle dieci settimane di primato di “Thriller” di Michael Jackson. L’autore ed interprete della canzone che porta lo stesso titolo del film, Kenny Loggins, sulla scorta di quel successone avrebbe poi firmato altri grandi hit per i maggiori blockbuster degli anni Ottanta (uno per tutti: “Top Gun”).



Colonna sonora a parte, Footloose fece la fortuna di molti attori. A cominciare dal protagonista, il quasi-esordiente Kevin Bacon. L’anno scorso,intervistato in TV da Conan O’ Bryen, lui stesso ha rivelato che il direttore dello studio di produzione si era opposto al suo ingaggio perché lo giudicava “non scopabile” (“ed io ci rimasi male, perché avevo 24 anni e mi consideravo scopabile eccome!”). Lo studio voleva un bellone: avevano preso di mira Tom Cruise, in considerazione del celebre balletto in “tre pezzi” (camicia slip e calzini) con il quale si era fatto notare l’anno prima in “Risky Business”, oppure in subordine Rob Lowe. Ma alla fine il regista ed il produttore del film promossero Bacon, il quale da lì in poi divenne una star e lo rimase ben oltre gli anni Ottanta. Nel 1990 fu tra i protagonisti di “Tremors”, l’anno dopo ebbe una parte in “JFK” di Oliver Stone, e quello successivo in “Codice d’Onore” di Rob Reiner; ma lo ricordiamo anche in “Mystic River” di Clint Eastwood (2003), e più recentemente nei panni del personaggio dei fumetti Sebastian Shaw in un film della fortunata serie “X-Men”. Alla fine, come mezza Hollywood, anche lui è approdato alla tv: attualmente è il detective Ryan Hardy nella serie “The Following”.


Una chicca: anche tra i comprimari vi è un nome che probabilmente pochi associano a Footloose, quello di Sarah Jessica Parker che quindici anni più tardi sarebbe divenuta arcinota nel ruolo di Carrie Bradshow, la protagonista della serie TV “Sex and the City”.


Uscito su America24

venerdì 7 febbraio 2014

L'INVASIONE (YEAH, YEAH, YEAH)

"In fondo l’America ha sempre avuto tutto. Perché noi dovremmo andare là e riuscire a fare soldi? Loro hanno già i loro gruppi. Cosa potremo dare loro che già non hanno?"
Si narra che McCartney confidasse queste ansie al mitico produttore Phil Spector, sul volo PanAm che, esattamente mezzo secolo fa, lo portava per la prima volta nel Nuovo Mondo assieme a John, George e Ringo.
Ricorre oggi il cinquantennale di quel primo sbarco dei Beatles in America, che cambiò per sempre la storia della musica. Prima che quei quattro ragazzi inglesi poco più che ventenni facessero quel tour negli Stati Uniti, il rock era un fenomeno squisitamente americano; dopo di allora, una volta che gli USA furono contaminati da quella che in Inghilterra già veniva definita beatlemania, prese il via la cosiddetta “British Invasion”, che aprì la strada ai Rolling Stones e a tutto quello che venne di conseguenza.
I Beatles atterrarono il 7 febbraio 1964 all’aeroporto che era appena stato ribattezzato John Fitzgerald Kennedy (dall’assassinio di JFK erano trascorsi appena 77 giorni), preso d’assedio da una folla impazzita per la prima volta nella sua storia.
“Moltiplicate Elvis Presley per quattro, sottraete sei anni dalla sua età, aggiungete un accento inglese ed un acuto senso dell’umorismo. La soluzione è: i Beatles (yeah, yeah, yeah)”. Così esordiva l’indomani la cronaca del New York Times, dove si spiegava che i quattro avevano buone probabilità di “divenire il prodotto di esportazione inglese di maggior successo dopo il cappello a bombetta”.
Il 9 febbraio si esibirono all’ “Ed Sullivan Show”, lo spettacolo televisivo della CBS che ogni sabato sera lanciava i nuovi idoli musicali della primissima generazione di teenager “televisivi”.
L’ingaggio per lo show, attorno al quale ruotava tutta quella breve tourné americana, era nato un po’ per caso: ad ottobre Sullivan si era trovato assieme alla moglie bloccato all’aeroporto di Heathrow a causa della folla impazzita che accoglieva i Beatles di rientro da un viaggio in Svezia. Impressionato, si era deciso a contattare il loro manager Brian Epstein (all’epoca 29enne) per “importarli” nelle ex colonie.
Lo show di Ed Sullivan andava in onda da un teatro di Broadway, che allora si chiamava Studio 50 e nel ’68 sarebbe stato ribattezzato “Ed Sullivan Theater”, nome che porta tutt’ora mentre funge da set per il non meno célèbre “Late Show with David Letterman” (in questi giorni, in onore del 50ennale, Letterman sta ospitando performance musicali a tema, per tutta la settimana).
Il debutto dei Beatles sulla TV americana totalizzò l’ascolto record di 73 millioni di spettatori, circa il 45% della popolazione, e fu seguito due giorni dopo – l’11 febbraio – da un concerto al “Coliseum” (il palazzetto dello sport) di Washington DC. attorniati a 360° da circa ottomila fans in preda al delirio, i Beatles si esibirono su di un palco posto a centrocampo, ruotando strumenti e amplificatori tra un brano e l’altro per rivolgersi poco a poco in tutte le direzioni.
L’indomani i quattro tornarono (in treno) a New York dove si esibirono alla Carnegie Hall; dopodiché volarono a Miami dove, il 16 febbraio, apparvero per il secondo sabato successivo all’Ed Sullivan Show, stavolta in via del tutto eccezionale in diretta dalla sala da ballo dell’Hotel Deauville di Miami Beach (il sabato successivo sarebbe andata in onda in differita una terza esibizione da loro appositamente preregistrata a New York).
Avendo debuttato da appena un mese nella autorevole classifica di Billboard (dopo che la californiana Capitol Records aveva cominciato a pubblicare i loro dischi, che precedentemente erano in commercio solo in Europa: negli USA era circolata alla radio qualche rara copia di importazione), in meno di due mesi da quel tour trionfale i Beatles si ritrovarono a detenerne improvvisamente tutte le cinque posizioni in vetta (rispettivamente con “Can’t Buy Me Love, con la cover di “Twist and Shout”, con “She Loves You”, con “I Want to Hold your Hand” e con “Please Please Me”).
Chissà, forse fu durante quel primo “sbarco” che John Lennon si innamorò di New York: la città dove si sarebbe ritirato a vivere con Yoko Ono dieci anni più tardi, dopo lo scioglimento del gruppo. E nella quale sarebbe stato assassinato, nel 1980. Ma questa è un’altra storia. Forse.
(uscito su The Post Internazionale)

sabato 1 febbraio 2014

SUPER BOWL NATION - PERCHÈ IL FOOTBALL È L'UNICO VERO SPORT NAZIONALE AMERICANO


 Il “Super Bowl” (la finalissima del campionato di football americano) non è solo un evento sportivo: è un rito collettivo, una vera festa nazionale. Con oltre 110 milioni di telespettatori, è lo spettacolo televisivo più visto d’America, ed uno degli eventi sportivi più visti al mondo (batte sia i Mondiali di calcio che il Gran Premio di Formula Uno di Montecarlo, e contende il primato alla finale di Champions League UEFA).Le grandi aziende sborsano quattro milioni di dollari (cioè quasi 3 milioni di euro) per comprare 30 secondi di spazio durante la partita, in cui mandare in onda spot televisivi fatti produrre appositamente per l’evento.

Perché proprio la finale del football - e non quella, ad esempio, del basket?

Che cos’ha di speciale questo sport, che in Europa è quasi inesistente?

Cosa lo ha portato a divenire in un certo senso una parte della “religione civile” americana?



VIOLENZA…
Il primo luogo comune da sfatare è quello che vede il football americano come uno sport basato quasi solo sulla forza bruta e sulla violenza, uno scontro fra due mandrie di bisonti in cui ha la meglio chi mena più duro.  Senza dubbio però la violenza è, da sempre, una caratteristica saliente di questo sport. Non a caso i giocatori scendono in campo bardati con le ben note protezioni, e anche se stanno in undici come a calcio, la panchina ne ospita altri 42 e le sostituzioni sono illimitate. All’inizio del Novecento, non era raro che qualcuno ci lasciasse le penne. Nel 1905, dopo la morte di ben 18 giocatori, il Presidente Teddy Roosevelt (che era un tifoso ma non poteva giocare, perché portava gli occhiali), impose l’adozione di regole che attenuassero la violenza in campo. La principale fu il “forward pass”, cioè la possibilità di passare la palla anche in avanti anche se a certe condizioni (contrariamente a quanto accade nel rugby, dove si può passarla sempre e solo all’indietro): questo rese meno determinante l’ “abbattimento ad ogni costo” di chi sta portando la palla verso la meta. L’evoluzione delle regole per contenere la violenza del gioco non è mai cessata: negli ultimi anni, ad esempio, sono state inasprite le regole che vietano gli scontri casco contro casco e altri usi fallosi di quello che è una protezione per la propria testa ma se utilizzato come corpo contundente si trasforma in arma impropria.
Il problema però non è risolto, e da qualche anno si discute molto dell’alto tasso di gravi neuropatie tra i giocatori professionisti. “Non darei a mio figlio il permesso di diventare un giocatore professionista”, ha recentemente dichiarato il presidente Barack Obama intervistato dal direttore del New Yorker.
Il prossimo film di Ridely Scott (forse non a caso proprio il regista de “Il Gladiatore…”) sarà dedicato proprio a questo “lato oscuro” dello sport più amato d’America.
Se non altro va notato che la violenza è rigorosamente confinata nel campo di gioco, mentre sugli spalti dello stadio non ci si sogna nemmeno lontanamente di menare le mani come è tristemente consueto fare negli stadi del calcio europeo.


…MA ANCHE INTELLIGENZA
Quello che non tutti sanno è che il football americano è anche uno sport dove conta moltissimo il cervello. Il campionato della National Football League è brevissimo: comincia a settembre e si conclude a dicembre, poi a gennaio si giocano i playoff e nell’ultima domenica di gennaio o nella prima di febbraio tutto si conclude con il “Super Bowl”. Quindi, contrariamente a quanto accade in Europa nel calcio (e negli USA nel baseball e nel basket) i giocatori sperimentano poco il “contatto diretto” con gli avversari, che conoscono più per aver visionato dei filmati che per averci effettivamente giocato contro.
Non potendo contare sull’esperienza diretta, devono giocoforza basarsi molto su di un approccio “concettuale”: memorizzando (ma anche comprendendo a fondo) un “repertorio” di schemi di gioco astratti (codificati nel cosiddetto “playbook”), ed imparando a metterli in atto, e a cogliere quali stanno attuando gli avversari per regolarsi di conseguenza, nel furore della mischia. Questo richiede una “preparazione mentale” più simile a quella di uno scacchista che a quella, per intenderci, di un giocatore di boxe. Il fulcro di questo aspetto è il quarterback, vero e proprio “cervello della squadra”: è il giocatore che più di ogni altro deve di volta in volta decidere quale schema giocare.



LO SPORT “DI TUTTI” GLI AMERICANI
Dati alla mano, il football è in assoluto lo sport più seguito dagli americani: batte sia il baseball che il basket. Probabilmente questo ha a che vedere anche con il fatto che, più di ogni altro sport, questo è parimenti amato e praticato dai “bianchi” tanto quanto dagli afroamericani. Attualmente i giocatori “non bianchi” sono la maggioranza assoluta di quelli che giocano nella NFL. Inoltre, mentre fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso il prestigioso ruolo di quarterback veniva tendenzialmente riservato ai bianchi, mentre i giocatori di colore sin dall’università venivano solitamente “incanalati” verso ruoli più muscolari e meno intellettivi, nell’ultimo decennio questa barriera è caduta: attualmente nove delle 32 squadre della NFL hanno un quarterback di colore, e si pronostica che nei prossimi due-tre anni saranno più o meno una quindicina. E’ afroamericano anche Russell Wilson, il quarterback di una delle due squadre che domenica disputeranno il Super Bowl di quest’anno, i Seattle Seahawks.
“Ogni maledetta domenica”, come recita il titolo del celebre film di Oliver Stone, si disputa la partita della NFL; ma altrettanto sentita è quella che si disputa ogni sabato, cioè quella del campionato universitario (NCAA, National Collegiate Athletic Association). Esso è anche una sorta di “Serie B” del football americano, ma non solo. E’ molto di più.

Ogni anno ottantamila appassionati si avventurano in un costoso pellegrinaggio verso lo stadio: il Super Bowl si disputa sempre in campo neutro (quest’anno nello stadio delle due squadre newyorkesi, che peraltro si trova in New Jersey, mentre le due squadre vengono dall’altra parte del Paese: da Denver e da Seattle). Alcuni sborsano più di tremila dollari (circa 2.500 euro – il triplo del prezzo del biglietto più caro per la finalissima del basket o del baseball) più il costo del viaggio e quello dell’hotel. Il problema più complicato è accaparrarsi un buon posto nel parcheggio: tradizionalmente lo si risolve arrivando al mattino, ed accampandosi tra le auto per ore improvvisando festini a base di birra e barbecue (è nato persino un apposito verbo: “tailgating”).


Quanto all’allenatore, nel 2003 la NFL si è data una regola che impone alle squadre che ne vogliono ingaggiare uno di intervistare anche candidati afroamericani: la cosiddetta “Regola Rooney”, dal nome del proprietario dei Pittsburgh Steelers Dan Rooney che ne è stato il principale sponsor. Per questa ragione “politica” Obama (che invece nel basket e nel baseball tifa per squadre della “sua” Chicago, rispettivamente i Bulls e i White Sox), nel football tifa per gli Steelers. Ed è contraccambiato: Rooney è dal 2008 un suo generoso fundraiser (ed è stato da lui ricompensato con la nomina ad ambasciatore USA in Irlanda dal 2009 al 2012).



’IMPORTANZA DEL FOOTBALL UNIVERSITARIO
Trentadue squadre per un Paese di estensione quasi continentale sono veramente poche. Per di più, tutte le squadre che giocano nella NFL (tranne una: i Green Bay Packers) hanno sede in una grande città, mentre la maggioranza assoluta degli americani abita nella più vivibile “provincia”.
La squadra “locale”, quella “di casa”, quella che la gente sente come “più vicina”, è quindi molto spesso quella del campionato universitario. Lì le squadre sono più di un migliaio, ben distribuite sul territorio. Inoltre, posto che negli USA è normale spostare ripetutamente la propria vita da una parte all’altra del Paese, spesso la laurea gli ex-studenti continuano a tifare per la squadra della propria alma mater anche se non rimangono a vivere nel luogo dove hanno studiato.


IL SUPER BOWL COME “FESTA NAZIONALE”
Ma il pubblico dello stadio non è che un frammento del popolo del Super Bowl. Il “Super Bowl Sunday”, o più semplicemente “Super Sunday”, è ormai considerato una festa nazionale, quasi al pari del Quattro Luglio: tra l’altro, pare che sia seconda solo all’Independence Day quanto a mole di cibo consumata (batterebbe quindi il Natale!).
Che si sia tifosi o meno, la partita la si guarda comunque, in televisione. Fino agli anni Settanta la visione del football in TV era noiosissima, perché la partita procede a singhiozzo con pause frequenti e spesso non brevi; poi, proprio per questo, vennero elaborate delle tecniche di regia hollywoodiane, che oggi sono state in parte mutuate anche per altri sport, grazie alle quali hanno il tutto è divenuto talmente spettacolare da risultare divertente anche per chi non sia un fanatico dello sport in sé. Per le riprese del Super Bowl le telecamere in campo sono più di sessanta.
E’ uno show, insomma, che “tutti” guardano a casa di amici: la partita – che si gioca a partire dalle sei e mezza del pomeriggio, e dura circa tre ore – è anche un pretesto per organizzare un bel festino. C'è poi uno show nello show: quello dell'halftime, l'intervallo di metà partita (tra il secondo e il terzo tempo: formalmente sono quattro tempi da 15 minuti ciascuno, anche se intervallati da molte soste). Negli anni Ottanta, quando gli ascolti televisivi hanno cominciato a diventare vertiginosi, gli organizzatori hanno abbandonato gli intrattenimenti musicali più tradizionali (bande e fanfare) ed hanno cominciato ad organizzare spettacoli pop con artisti di grido. Da allora si sono avvicendati Sting e Bruce Springsteen, Michael Jackson e Paul McCartney, Prince i Rolling Stones.
Lo show più visto è stato quello di Madonna nel 2012. Quello che ha suscitato più scalpore, però, rimane quello di Janet Jackson che nel 2004, proprio nell’ultimo istante della sua esibizione con Justin Timberlake, si trovò per un istante (per un “malfunzionamento del costume”, si giustificò poi – ma nessuno la ha mai creduto) ad esibire un seno scoperto con tanto di capezzolo corazzato. Uno degli inventori di YouTube sostiene di aver avuto l’ideona proprio allora, ispirato dalla frustrazione per la difficoltà di trovare il video online. Di necessità virtù, insomma. Quest'anno il quarto d'ora di super-ribalta sarà del giovane Bruno Mars, ma con il rinforzo non trascurabile dei Red Hot Chili Peppers

Uscito su America24 

TALK RADIO

All'antevigilia del 48esimo Super Bowl, ho avuto il (grande) piacere di una chiacchierata radiofonica con Ernesto Kieffer, alla "trasmissione di cultura sportiva" La Tertulia - Racconti dall'oltresport, sulle frequenze di Radio Popolare Verona. Tema: tutto quello che avreste voluto sapere sul football americano* (*ma non avete mai osato chiedere). Per chi si fosse perso la diretta, il podcast è qui. 

Buon ascolto - e Go Broncos!