giovedì 24 gennaio 2013

OBAMA UN "REAGAN DI SINISTRA"?


La blogstar Andrew Sullivan, forse l’ultimo obamiano sfegatato non-di-sinistra rimasto su piazza, lo aveva ipotizzato già a settembre, a campagna elettorale più aperta che mai: se Barack Obama avesse vinto la rielezione, avrebbe potuto tentare di essere “Il Reagan dei Democratici” (Newsweek ci fece una delle sue ultime copertine prima di abbandonare l’edizione cartacea). Nel senso di un “transformational president”, un presidente che non si limita a governare il paese ma si spinge molto oltre, lo trasforma, determina con la propria leadership uno smottamento non solo nel voto ma persino nella mentalità di gran parte degli elettori – anche fra i simpatizzanti del partito avversario – destinato a durare ben più del suo mandato, per almeno una generazione.

Ora, dopo il suo discorso di inaugurazione di lunedì, nel quale molti hanno letto un audace spostamento a sinistra rispetto ai compromessi del primo mandato, sono in molti a riprendere questa immagine.

Oggi da sinistra lo fa E. J. Dionne sulle colonne del Washintgon Post: dopo aver ricordato come Nel gennaio del 2008, l'aspirante candidato Obama confessò ai giornalisti di ammirare Reagan, perché "aveva cambiato la traiettoria dell'America in un modo in cui non lo aveva fatto Richard Nixon, e nemmeno Bill Clinton", Dionne afferma che oggi “Come Reagan, Obama tenta di attuare il suo programma non cercando il sostegno dei leader del partito di opposizione, bensì conquistando una minoranza dei repubblicani meno intransigenti – specialmente i parlamentari del Nordest, della Coste Ovest e di parte del Midwest che sentono da che parte tira il vento della politica dalle loro parti”.

Ma anche da destra c’è chi la vede in termini sostanzialmente analoghi: Rich Lowry, direttore della rivista conservatrice National Review, ieri in un corsivo su The Politico notava che nel proclamare, inaugurando il proprio secondo mandato, la sua visione a favore di “più intervento statale e politiche più di sinistra sui temi sociali”, “Obama sta recitando la sua parte, come vuole il nuovo cliché, per arrivare ad essere il Reagan della sinistra”. Lowry aggiunge però una importante nota di scetticismo: "Per diventare un personaggio di perpetua trasformazione come Reagan, però, serve ben altro. Dovrà terminare il proprio mandato venendo adorato. Dovrà consolidare la sua eredità vincendo di fatto una sorta di terzo mandato” (l’allusione è al mandato presidenziale di Bush padre, ndt). “E le sue politiche dovranno funzionare, come fece Reagan vincendo la guerra fredda e rilanciando l'economia”.

A voler essere pignoli, c’è anche un ulteriore elemento a lasciare perplessi rispetto alla ipotesi di un “percorso reaganiano” per la presidenza Obama. Quando nel 1984 Reagan venne rieletto trionfando in 49 Stati su 50, ottenne il 26% del voto democratico, esattamente lo stesso di quattro anni prima, e ben il 63% - più del doppio - di quello degli elettori indipendenti: tanto che da allora è divenuto usuale parlare di Raegan democrats (democratici reaganiani) per indicare quegli elettori di sinistra (prevalentemente bianchi del Sud e operai del Nord e del Midwest) spesso disponibili a votare per un candidato repubblicano.
Di un equivalente a parti invertite, di un consistente pezzo di America estraneo all’area del Partito Democratico ma ciò nondimeno incline a dare la propria adesione alla visione, anche ideale se non ideologica, della quale Barack Obama si propone come interprete ed ispiratore, ad oggi non si vede traccia.

martedì 22 gennaio 2013

"ROE CONTRO WADE" COMPIE 40 ANNI. UN CASO ANCORA APERTO?

Si chiamava Norma McCorvey e lavorava come cameriera in un bar. Era bisessuale. Era alcolizzata e tossicodipendente. Nel 1971 si era rivolta al Tribunale di Dallas sostenendo di essere rimasta incinta a seguito di uno stupro: aveva chiesto di essere autorizzata ad abortire, nonostante la legge del Texas vietasse l’aborto sanzionandolo come un crimine.

Nacque così la mitica causa “Roe contro Wade”, che esattamente quarant’anni fa, il 22 gennaio del 1973, si concluse con quella che ancora oggi rimane la più controversa sentenza mai pronunciata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti - tant’è che non solo oggi per il quarantennale, ma ogni anno nel giorno dell’anniversario, per quarant’anni il grande plateatico davanti al palazzo neoclassico, ove la Corte ha sede, è stato teatro di pacifiche ma accese manifestazioni, sia a favore che contro quella storica decisione.

“Roe” sta per “Jane Roe”, lo pseudonimo usato in America per garantire l’anonimato alla donna durante un processo (in Italia i giuristi potrebbero usare “Tizia”, ma i giornalisti non sarebbero tenuti ad altrettanta discrezione). “Jane”, ossia Norma, molti anni dopo avrebbe confessato di aver in realtà partorito e dato la bimba in adozione (cosa che aveva già fatto altre due volte in precedenza), e di aver mentito al Tribunale su suggerimento del suo giovane avvocato, Sarah Weddington.
Sarah era un'appassionata militante pro choice: lo era divenuta avendo a propria volta vissuto in prima persona il trauma di un aborto clandestino. Volle “creare il caso” anche a costo di ricorrere a quella grave forzatura (ironia della sorte, nel 1995 la signora McCorvey si sarebbe trasformata in una “cristiana rinata” e sarebbe divenuta un’attivista del movimento pro life).
“Wade”, la controparte formale nel processo, era Henry Wade, il procuratore distrettuale della contea di Dallas che si trovò a rappresentare lo Stato del Texas non solo in primo grado, vincendo, ma anche nel conseguente appello davanti alla Corte Suprema (il vero fine per cui la Weddington aveva imbastito la causa). Curiosamente, Wade faceva così la sua seconda comparsata nella storia: nel 1963 era stato lui a rappresentare l’accusa nel primo processo per l’assassinio di John Kennedy (in cui l’imputato non era l’assassino del presidente, Lee Oswald, bensì quel Jack Ruby che due giorni dopo aveva a sua volta assassinato l’assassino).
Non aveva mai perso neanche una causa, Wade: quella intentata da “Jane Roe” fu la prima. Il 22 gennaio 1973 la Corte Suprema, con una maggioranza di 7 a 2, decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava l'aborto. La donna, scrissero i giudici, ha un diritto costituzionale ad interrompere la gravidanza: ha diritto ad abortire “per qualsiasi ragione” per tutto il primo semestre di gravidanza, mentre negli ultimi tre mesi solo “per ragioni di salute”. 
Quello stesso giorno, contemporaneamente a “Roe contro Wade”, la Corte Suprema decise anche il caso gemello “Doe contro Bolton”, stabilendo che nel verificare le “ragioni di salute” che giustificavano l’aborto, il medico avrebbe dovuto considerare rilevanti non solo le questioni attinenti la salute in senso stretto, ma anche tutti gli altri fattori rilevanti per il benessere della paziente, inclusi quelli “emozionali, psicologici, familiari”.
La motivazione della sentenza, alquanto “creativa”, era ricalcata su quella con la quale la Corte nel 1965, aveva deciso il caso “Grisvold contro Connecticut” decretando l’incostituzionalità delle leggi che vietavano i metodi anticoncezionali. In quel caso la Corte aveva affermato l’esistenza di un diritto costituzionale “alla privacy”, cioè alla non intrusione dello Stato nelle faccende più intime e private dei cittadini, desumibile - con buona dose di fantasia esegetica - dalla due process clause sancita dal quattordicesimo emendamento della Costituzione (“nessuno Stato priverà alcuna persona della vita o della libertà o della proprietà se non in seguito ad un regolare processo secondo diritto”).
“Roe contro Wade” cambiò la società americana; e lo fece di punto in bianco, con un colpo d’accetta. Fino ad allora l’interruzione di gravidanza negli USA era regolata non a livello federale, ma dalla legislazione dei singoli Stati: nella maggioranza era vietata tout court, o consentita a condizioni molto restrittive. Da quel momento in poi, invece, la “libertà di abortire” diventava improvvisamente un diritto costituzionale, inviolabile e tendenzialmente collocato fuori dal campo d’azione dei legislatori democraticamente eletti (incluso quello federale). Anche per questo, quella decisione non sarebbe mai stata del tutto metabolizzata.
La decisione posta alla base di “Roe contro Wade” si fonda sull’assunto che fino al compimento dei sei mesi di gravidanza la questione dell’aborto non vede contrapposte due persone, perché il feto non può essere tutelato come persona finché non è “vitale” (“viable”), ossia capace di sopravvivere fuori dal grembo materno: fino ad allora, sta alla madre scegliere liberamente se portare o no a termine la sua gestazione.
Venne così introdotta negli USA una facoltà di abortire di gran lunga più ampia di quella sancita di lì a cinque anni in Italia, dove l’applicazione che si è data alla legge 194 ammette l'aborto senza limitazioni solo nei primi tre mesi di gravidanza. Nel secondo trimestre, la legge italiana consente solo l’aborto giustificato dal fatto che la gravidanza stessa o il parto mettano a repentaglio la salute della donna, oppure dal fatto che siano pronosticabili “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”.
Nel regime americano creato da “Roe contro Wade”, invece, l’unico distinguo tra il primo e il secondo trimestre è che nel primo le modalità dell’aborto vanno liberamente determinate dalla donna e dal suo medico, mentre nel secondo trimestre "lo Stato, nel promuovere il suo interesse alla salute della madre, può, se vuole, regolamentare le procedure abortive in termini ragionevolmente correlati alla salute della donna". Il legislatore americano, quindi, può al massimo regolamentare il “come”, la scelta di quale tecnica abortiva adottare; e comunque solo per il secondo trimestre, e solo nell’interesse della donna stessa, non del feto (di fatto vige ampia libertà di ricorso a tutte le tecniche, incluso l’aborto chimico tramite la pillola RU486).
Da quarant’anni, su “Roe contro Wade” non si ragiona: senza se e senza ma, è dogma indiscutibile per la sinistra liberal, e mostro da abbattere per i conservatori. Qualche anno fa, l’Economist notò come il tema dell’aborto sia al centro di uno dei principali paradossi della politica americana: la gran maggioranza degli elettori repubblicani è generalmente ostile all'intervento statale nella vita del cittadino, ma vorrebbe che lo Stato intervenisse in modo molto più consistente e più severo nel limitare la facoltà di abortire; la gran parte dei democratici, per contro, è favorevole su quasi tutto il resto all’intervento pubblico, ma su questo tema difende “senza se e senza ma” la libertà di scelta individuale della donna.
In realtà la questione è meno apocalittica di come l’opinione pubblica americana è abituata a considerarla. Quand’anche la Corte Suprema adottasse un nuovo orientamento giurisprudenziale che liquidasse quello introdotto con “Roe contro Wade”, l’effetto non sarebbe la automatica proibizione dell’aborto su tutto il territorio nazionale, bensì la restituzione ai parlamenti dei singoli Stati, ed anche del parlamento federale di Washington, della competenza a legiferare sull’argomento.
È vero che se quel precedente venisse smentito in modo netto, l’indomani potrebbero tornare automaticamente in vigore le preesistenti legislazioni antiabortiste di alcuni Stati che con “Roe contro Wade” vennero dichiarate incostituzionali; in particolare, in sette Stati (Arkansas, Louisiana, Michigan, Oklahoma, South Dakota, Texas e Wisconsin) l’aborto tornerebbe lì per lì ad essere vietato senza nemmeno eccezioni per la salute della donna, e solo in quattro Stati rimarrebbe legale “on demand” (senza condizioni) nei primi mesi di gravidanza. Ma è pur vero che in breve tempo la parola tornerebbe ai legislatori, ai rappresentanti del popolo democraticamente eletti, e la normativa potrebbe essere adattata alla sensibilità e alla mentalità degli elettori del Ventunesimo secolo.
Nelle aule di tribunale il precedente di “Roe” non venne rimesso seriamente in discussione per un ventennio: fino al caso “Planned Parenthood contro Casey” del 1992. Bob Casey era il governatore democratico della Pennsylvania, un antiabortista al quale per tale ragione quello stesso anno fu impedito di tenere un discorso alla convention del partito a Filadelfia in cui Bill Clinton riceveva l’investitura a candidato per la Casa Bianca (è anche il padre del senatore democratico Bob Casey Junior, il quale, anche lui pro-life come il papà, alle elezioni di medio termine del novembre 2006 spodestò dal seggio senatoriale il repubblicano ultrareligioso Rick Santorum: una tenzone tra un antiabortista di destra e uno di sinistra).
La Planned Parenthood, che è il principale network di cliniche per gli aborti del Paese ma anche la principale lobby pro-choice, riuscì a sottoporre al giudizio della Corte Suprema la legge della Pennsylvania, voluta per l’appunto dal governatore Casey, che stabiliva che alla donna che chiedeva di abortire potesse essere accordata la relativa facoltà solo a condizione che ne avesse dato notizia al marito, nonché ai genitori se minorenne, e che attendesse un intervallo di 24 ore sottoponendosi ad una seduta di consenso informato. I giudici di Washington ritennero che l’apposizione di quei “paletti” non fosse di per sé illegittima, perché "non sempre le leggi che rendono più difficile l'esercizio di un diritto ne comportano, per ciò stesso, la violazione", mentre “soltanto quando la legge impone un limite eccessivo (“undue burden”) alla capacità di scelta della donna, allora lo Stato viola il nucleo della libertà protetta dalla due process clause”.
E quindi sì alla condizione del previo avviso ai genitori della minore, così come a quella dell’attesa delle 24 ore e della seduta di consenso informato (che oggi è prescritta dalla legislazione di 28 Stati), ma no all'obbligo di comunicare l'intenzione di abortire al marito. Ma quel che più conta è che la Corte confermò esplicitamente il precedente di “Roe contro Wade” come stella polare di ogni successiva decisione in materia, spingendosi ad affermare che grazie a quella sentenza "la capacità delle donne di prendere parte alla vita economica e sociale è stata agevolata dalla loro capacità di controllare la loro vita riproduttiva".
L’ultimo episodio della saga è del 18 aprile del 2007, quando la Corte Suprema “salvò” la legge federale voluta da Bush che vieta il “partial birth abortion”, l’aborto tardivo tramite nascita parziale. In questo caso non venne messa in discussione la libertà della donna di scegliere liberamente ed incondizionatamente se abortire fino al sesto mese. Motivo del contendere era solo la tecnica abortiva che serviva ad aggirare il divieto di abortire dopo lo scadere di quel termine. Il feto veniva girato in posizione podalica, poi veniva estratto tutto il corpicino tranne la testa, e a quel punto gli veniva forata la nuca e gli si aspirava il cervello con un catetere; cosicché il bimbo veniva partorito con il cranio svuotato.
In questo modo, quando usciva del tutto dal grembo materno non era più “vitale”, per cui formalmente il limite sancito da “Roe contro Wade” figurava essere stato rispettato. I “pro-choice” sostenevano che in quel modo il feto moriva comunque senza soffrire, perché fino alla ventinovesima settimana i collegamenti tra la corteccia celebrale e l’ipotalamo, che consentono la percezione del dolore, non sono ancora attivi. In Italia la legge 194 non consente questo metodo abortivo, perché prevede che comunque dopo il sesto mese non si possa interrompere una gravidanza senza predisporre ogni cura per la salvaguardia del bambino: persino se la madre è in «grave pericolo di vita» non si può praticare deliberatamente un aborto, ma solo indurre il parto adottando «ogni misura idonea» per salvare la vita del figlio.
Un tempo la promessa di nominare alla Corte Suprema giudici favorevoli o contrari a “Roe” era uno dei cavalli di battaglia di un candidato alla Casa Bianca; Ma negli ultimi anni la “guerra culturale” per antonomasia è passata sempre più in secondo piano.

Durante le elezioni presidenziali del 2008, il tema fu quasi assente. Ad agosto, quando la campagna elettorale entrava nel vivo, il celebre pastore evangelico Rick Warren intervistò simmetricamente in diretta tv entrambi i candidati su temi eticamente sensibili, e ad entrambi chiese di pronunciarsi su quale sia il momento in cui un bambino diviene titolare di diritti umani. Il candidato repubblicano John McCain, pur non essendosi mai distinto per bigotteria né per zelo religioso, rispose a botta sicura: “al momento del concepimento”.

Barack Obama era solito ostentare la sua religiosità ben più dell’avversario repubblicano, ma in quel frangente cercò di glissare con una battuta agrodolce: “che Lei la metta sotto una prospettiva teologica, o sotto una prospettiva scientifica, comunque una risposta precisa a questa domanda rimane, per così dire, al di sopra delle mie mansioni”. Dopodiché rese la “professione di fede” dalla quale nessun democratico ortodosso può esimersi - “in termini generali io sono pro-choice, e credo in “Roe contro Wade” - e spiegò che come politico preferiva occuparsi di come si può ridurre il numero degli aborti, ferma restando la libertà di scelta eccetera eccetera. Si trattò di una parentesi piuttosto sonnolenta, in una campagna elettorale incentrata su tutt'altro.
Pochissima attenzione venne dedicata anche al fatto che Obama, poco prima dell’inizio delle primarie, intervenendo ad un convegno della Planned Parenthood aveva dichiarato che, se eletto, il suo primo atto come Presidente sarebbe stato quello di firmare il “Freedom of Choice Act”. Si tratta di un disegno di legge presentato nel 2003 dal deputato democratico di New York Jerold Nadler ma mai messo ai voti, che propone di codificare, cioè di trasformare in legge, il principio coniato da “Roe contro Wade” nella sua versione più “pura”, abrogando cioé tutte le restrizioni federali alla libertà di abortire sino ad oggi “ammesse” dalla giurisprudenza della Corte Suprema - ivi incluso lo stesso divieto di partial-birth abortion.
Il 22 gennaio 2009, nel trentaseiesimo anniversario di “Roe”, il neo-eletto (anche con il 52% del voto cattolico) presidente Obama, insediatosi da poche ore alla Casa Bianca con un rito religioso officiato anche dal reverendo Warren, firmò un ordine esecutivo (insieme a una dozzina di altri, tra i quali quello tanto applaudito che decretò la chiusura entro un anno del carcere di Guantanamo, destinato a rimanere lettera morta), con il quale abrogò il divieto - introdotto da Reagan un quarto di secolo prima, poi revocato da Clinton, e infine ripristinato da Bush - di finanziare con fondi federali le organizzazioni non governative che promuovono l’aborto all’estero (la cosiddetta “Mexico City Policy”). Nessun accenno, invece, al “Freedom of Choice Act”, che non è più stato nemmeno ripresentato. Pochi mesi dopo, in una conferenza stampa primaverile, il presidente avrebbe dichiarato che quella legge non rientrava fra le sue “priorità legislative”.
Ora Obama – che durante il suo primo mandato ha nominato alla Corte Suprema due donne, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan, che vengono considerate due prochoice ma non hanno mai palesato grande attivismo sul tema - è stato rieletto dopo una campagna elettorale nella quale il tema è stato, se possibile, persino più assente di quanto lo era stato in quella del 2008. Di fatto si dà ormai per scontato che la questione a livello federale sia fossilizzata nei principi di "Roe", e che solo nella legislazione dei singoli Stati ci sia ancora una partita aperta.
Secondo uno studio del Guttmacher Institute, una associazione prochoice, nei 50 Stati solo nel 2011 sono state approvate ben 91 leggi restrittive rispetto alla facoltà di abortire. Nella maggior parte dei casi si tratta dell’esclusione dall’accesso ai fondi pubblici previsti da ObamaCare per le assicurazioni sanitarie che includano l’aborto tra le pratiche mediche rimborsabili. Ma quando lo scorso 6 novembre questo tipo di provvedimento è stato messo ai voti con referendum in Florida, è stato bocciato dal 55% degli elettori – quasi il 5% in più rispetto a quelli che hanno votato per la rielezione di Obama. 
Uscito su Linkiesta

giovedì 10 gennaio 2013

URAGANO CHRISTIE

Chris Christie, il sempre più amato governatore “extralarge” del New Jersey, dice che non gli è piaciuto vedersi sulla copertina del nuovo numero di Time, nelle edicole domani, per via di quel titolo (“The Boss”) che oltre che alla sua nota passione per il suo conterraneo Bruce Springsteen allude goliardicamente anche alla mafia, giocando sulla fortissima componente italoamericana dello Stato da lui governato. Tanto più sotto a quella sua foto con l’espressione torva che lo fa sembrare uno dei Sopranos. “Citerò l’editore in tribunale per diffamazione razziale anti-italiana”, ha detto ieri in un’intervista radiofonica. Scherzava: è un uomo spiritoso. Ma è anche un uomo molto furbo. Da buon New Jerseyan ha una mamma italoamericana (come del resto il suo idolo musicale, il quale se avesse preso il cognome materno invece che Springsteen si sarebbe chiamato Bruce Zerilli), ma soprattutto ha a cuore i voti dei moltissimi italoamericani che risiedono e votano nel suo Stato.

Telegenico benchè disperatamente obeso, pragmatico nella sostanza ma passionale e carismatico nello stile, Christie è un’anomalia politica: il New Jersey tradizionalmente è una roccaforte Democratica (come la confinante New York, del resto) eppure lui, repubblicano tutt’altro che politicamente corretto, la governa da ormai più di tre anni con un tasso di popolarità che non è mai stato particolarmente basso, ma che è schizzato ad altitudini siderali dopo che lo scorso 29 ottobre l’uragano Sandy ha devastato il suo Stato lasciando a lungo decine di migliaia di persone senza casa o comunque in condizioni tragiche. Si era nel vivo della campagna elettorale e fino a quel momento Christie, che due mesi prima aveva persino avuto l’onore di tenere il keynote speech alla Convention Nazionale Repubblicana di Tampa, era stato fino a quel momento uno dei più attivi e leali sostenitori della candidatura di Mitt Romney. Ma di fronte all’emergenza ha deciso di mettere da parte la politica politicante ed ha collaborato strettamente con la Casa Bianca per gestire al meglio i soccorsi. I vertici del partito e molti opinionisti conservatori lo hanno criticato duramente, qualcuno lo ha accusato di intelligenza con il nemico, ma l’opinione pubblica lo ha premiato, ed altrettanto hanno fatto i mainstream media da parte dei quali non si vedeva tanto amore per un repubblicano dei tempi del picco di popolarità di John McCain nelle primarie presidenziali del 2000.

E pensare che l'anno scorso l’establishment del GOP lo voleva a tutti i costi candidato alla Casa Bianca: lui si fece a lungo corteggiare ma alla fine si negò. Vi furono allora forti pressioni perché entrasse nel ticket come vice, ma niente da fare. Il fatto è che Christie è sempre andato a genio all’establishment, ma anche alla base più ruspante e arrabbiata: il mondo dei Tea Party e dei tribuni ultraconservatori alla Rush Limbaugh lo ha amato non solo per il suo stile focoso (che a volte lo fa somigliare un po' ad un altro celebre "boss" del New Jersey, quello delle torte - il quale non ha perso l'occasione di farne una tutta per lui), ma anche per la sua battaglia per tagliare la spesa di uno Stato devastato dal deficit, un braccio di ferro contro la sinistra Democratica ma anche contro i sindacati.

Ma sulla diffusione delle armi, sui diritti delle coppie gay, sull'immigrazione e su altri temi Christie è nella sostanza un moderato, un centrista. Il che lo contrappone ai vertici del partito nei cui confronti anche negli ultimi giorni ha scagliato pubblicamente i suoi strali per via dei ritardi nell’approvazione del piano di aiuti post-uragano.

A novembre Christie dovrà conquistare una rielezione che oggi pare scontata: il suo tasso di popolarità tra gli elettori democratici è addirittura maggiore di quello presso i repubblicani, e si stenta a reperire un kamikaze che si immoli a sfidarlo (caso clamoroso in New Jersey, dove tradizionalmente i Democratici giocano in casa). Persino l’obamiano Bruce Springsteen, nei cui confronti egli aveva a lungo coltivato un amore non corrisposto, da ultimo gli ha concesso la sospirata amicizia.

Ma la vera posta in gioco non è la rielezione come governatore: la vera questione sono le presidenziali del 2016. Christie sarà protagonista del dopo-Obama? Difficile a dirsi. La nuova cover-story di Time ipotizza che possa essere un "master of disaster", un salvatore dal disastro per il suo partito devastato dalla sconfitta elettorale come lo è stato per la Jersey Shore devastata da Sandt. Ma per ottenere la candidatura alla Casa Bianca occorre vincere le primarie in posti molti diversi dal New Jersey. Staremo a vedere: per ora si è ben piazzato ottenendo che la presidenza della influente Associazione dei Governatori Repubblicani, in questi anni detenuta dal governatore del Texas Rick Perry, gli venga assegnata l’anno prossimo, con una sorta di staffetta con Bobby Jindal della Louisiana, che rivestirà la carica per quest’anno - un altro governatore dalle grandi ambizioni.



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