mercoledì 29 febbraio 2012

ROMNEY VICINO ALLA CANDIDATURA - E OBAMA ALLA RIELEZIONE


“Una buona serata per Romney – e anche per Obama”: così titola il suo commento sornione John Cassidy del New Yorker. Nel senso che se Romney ieri sera avesse perso in Michigan, l'ipotesi della discesa in campo in extremis di un deus ex machina del genere Jeb Bush avrebbe cessato di appartenere al mondo della fantapolitica ed avrebbe assunto una certa verosimiglianza. La vittoria di Romney, per risicata e sofferta che sia, sgombra il campo da questo scenario “ingestibile”, e regala alla Casa Bianca la serenità di potersi organizzare rispetto alle altre due ipotesi in campo, nessuna delle quali toglie il sonno al Presidente: 
Da oggi è praticamente certo che i repubblicani si beccheranno o un candidato malconcio, il cui indice di gradimento tra gli elettori indipendenti è precipitato di quasi 20 punti percentuali negli ultimi due mesi (Romney); o tutt'al più - meno probabile ma ancora non completamente escluso – con un perdente garantito (Santorum).
In effetti per Mitt il freddo questa vittoria significa aver evitato una catastrofe, ma nulla di più: era un “do or die”, un “make or break”, una questione di sopravvivenza; ed è sopravvissuto. Punto. Difficile credere che una vittoria tormentata e sudata come quella di ieri sera (pur giocando “in casa”, ha dovuto spendere in propaganda più del doppio del suo avversario) possa fruttare a Romney – che non è riuscito a far scaturire alcun “momentum” nemmeno da quella assolutamente trionfale in Florida di un mese fa – quella immagine vincente e convincente, quella capacità di appassionare un minimo gli elettori che sino ad oggi ha dimostrato di non possedere. Ne esce molto più sulla difensiva di com'era partito, e questo in termini di immagine non può che nuocergli. Il politologo Larry Sabato parla addirittura di “vittoria morale” di Santorum, e probabilmente un po' esagera; qualcosa di vero però c'è.

Non sono solo i sondaggi a dare questa sensazione. Se si esaminano i bilanci dei rispettivi comitati elettorali, si nota che nel 2011 Romney ha raccolto molti più finanziamenti dei suoi avversarti, ma che solo il 10% consiste in piccole donazioni (si considerano tali quelle che non superano i 200 dollari), mentre sia Santorum, Gingrich e Paul, sia lo stesso Barack Obama, hanno attinto da queste piccole donazioni circa metà dei rispettivi finanziamenti. La capacità di ottenere donazioni dai cosiddetti “small-dollar supporters” va di pari passo con la capacità di connettersi emotivamente con l'uomo comune, con l'americano medio, e soprattutto con quel ceto medio e medio-basso che sino ad ora si mantiene diffidente nei confronti dell'aristocratico miliardario bostoniano.
Ad ogni modo, il match di ieri non ha lasciato morti sul campo. Il prossimo si disputa fra sei giorni: si tratta del cosiddetto “supermartedì”, che vede accorpati undici Stati in cui si vota simultaneamente. Nel più importante, l'Ohio – che da solo assegna più delegati di Michigan e Arizona messi assieme - i sondaggi oggi danno in netto vantaggio Santorum. La campagna elettorale, quindi, si sposta ancora una volta lì, nel cuore del MidWest dilaniato dalla crisi economica.

mercoledì 22 febbraio 2012

OBAMA SINGS THE BLUES

Il clamore spropositato, quasi isterico, generato da quei pochi secondi in cui Barack Obama ha accennato un brano di Al Green durante un evento di fundraising un mese fa all'Apollo Theatre di New York devono aver indotto lo staff del presidente a riflettere su quanto i suoi elettori sentano la mancanza del suo lato “pop”.
La gente vuole vedere un Obama popstar? Ieri è stata accontentata. In occasione del concerto blues tenuto ieri sera nella sala est della Casa Bianca per celebrare il “Black History Month”, il mese dedicato alla storia e alla cultura afroamericana (e trasmesso in diretta nazionale dall'emittente televisiva PBS nell'ambito di una rassegna di concerti musicali alla Casa Bianca), il presidente è salito sul palco e si è lanciato in una impeccabile interpretazione del classico “Sweet Home Chicago” accompagnato da una band d'eccezione capitanata da mostri sacri come B. B. King. E Mick Jagger.

Ecco il video della mini-performance presidenziale:

L'evento è stato orchestrato con particolare cura, inserendo anche un passaggio “colto” sempre con protagonista il presidente, che ha tenuto un brillante discorso: 
“Il blues ci ricorda che abbiamo attraversato tempi piu' duri di quelli attuali. Oggi sono orgoglioso di avere qui questi artisti, non solo come fan ma anche come presidente. La loro musica ci insegna che quando ci troviamo di fronte ad un bivio, non scappiamo davanti ai problemi. Li facciamo nostri, li fronteggiamo, facciamo i conti con loro. Ci cantiamo su, li trasformiamo in arte. E anche se ci confrontiamo con le dure sfide di oggi, possiamo sempre immaginare un futuro migliore. Questa è una musica di umili origini, affonda le sue radici nella schiavitù e nella segregazione, in una società che raramente trattava i neri d'America con la dignità e il rispetto che meritavano. Era la testimonianza di quei tempi duri. Tantissimi uomini e donne cominciarono a cantarlo; e il blues e' andato oltre, ha sfondato ogni confine, andando oltre i luoghi in cui era nato. E' migrato a Nord, dal Delta del Mississippi a Memphis, fino alla mia città, Chicago. Ha generato la nascita del Rock 'n Roll, del Rhythm 'n Blues, fino all'Hip Hop. […] Il Blues continua a radunare folle perché parla di qualcosa di universale. Nessuno attraversa la propria vita senza gioia e dolore, trionfi e insuccessi. Il blues parla di tutto questo, a volte con una sola nota e una sola parola''.
La canzone “Sweet Home Chicago” - che qui da noi è conosciuta più che altro grazie al film “The Blues Brothers” - venne scritta o quanto meno “codificata” negli anni Trenta dal mitico Robert Johnson, , il giovane bluesman che secondo la leggenda aveva fatto un patto con il diavolo per poter suonare così bene. Da molti considerato una sorta di capostipite della musica blues, Johnson veniva dal Delta del Mississippi e migrò a Memphis. La canzone in realtà menziona Chicago (ma nella versione originale anche la California e l'Iowa) solo come meta della migrazione.
Per questo si tratta di una canzone assolutamente perfetta non solo come siparietto glamour per il presidente che di Chicago ha in effetti fatto la propria “Sweet Home”, la città in cui ha mosso i primi passi in politica e ha conosciuto sua moglie, ma anche come riferimento per la prolusione colta che Obama ha tenuto.

Negli anni Venti e Trenta molti neri erano migrati a Chicago dal Delta del Mississippi, per sfuggire alla disoccupazione causata dalla grande inondazione che nel 1927 aveva lasciato senza lavoro centinaia di migliaia di braccianti nelle piantagioni di cotone e tabacco. La cosiddetta “Grande Migrazione Afroamericana” avveniva per lo più in treno, e siccome i migranti tendevano a comprare il biglietto ferroviario più conveniente, molti di quelli che lasciavano il Mississippi si spostarono a Chicago, per andare a lavorare nelle acciaierie e negli "stockyards" (i macelli della zona sudoccidentale della città). Proprio in quel contesto nacque il cosiddetto “Chicago blues” – la musica di Muddy Waters, di Howlin’ Wolf, Buddy Guy, di Bo Diddley - che si sviluppò verso la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta. Il blues di Chicago si differenzia infatti da quello primordiale nato all’inizio del secolo sul Delta del Mississippi poiché gli strumenti non sono più solo la chitarra e l'armonica (comodi da portare in giro per i bluesman delle origini, che vagabondavano a piedi da un villaggio all’altro come dei menestrelli), ma anche batteria, basso e piano (una vera e propria band, anche se di piccole dimensioni), ed erano tutti allacciati ad amplificatori elettrici.

lunedì 20 febbraio 2012

WOOLDRIDGE: E SE STAVOLTA FOSSE UN COSA SERIA?

“L'industria più florida d'America”: così ad ottobre la caporedattrice di Foreign Policy Susan Glasser definì il “declinismo”, ironizzando sulla produzione dilagante di libri ed articoli sul tema del tramonto della potenza a stelle e strisce.
Nei quattro mesi successivi il trend non ha fatto che aumentare, con una impennata nelle ultime settimane generata dall'uscita del nuovo saggio dell'antideclinista neoconservatore Bob Kagan (che ha trovato nel Presidente Obama uno sponsor inatteso).
L'ultimo intervento sul tema è il pezzo che Adrian Wooldridge ha firmato (si fa per dire, perché come da tradizione la firma non c'è – ma la paternità è certa perché è uscito nella sua rubrica economica “Schumpeter”) sull'ultimo numero dell'Economist, con il titolo “Stavolta è una cosa seria”.
Wooldridge è uno che se ne intende come pochi. Per tredici lunghi anni, dal 1996 al 2009 è stato a capo della redazione dell’Economist a Washington e titolare della mitica rubrica “Lexington” che segue i temi salienti della politica americana; nel 2004 è stato coautore (a quattro mani con John Micklethwait che dell'Economist è ora il direttore) dell'imprescindibile saggio“The Right Nation" sulla storia della destra statunitense. Il suo articolo di commiato, nel luglio del 2009, fu una rassegna degli elementi di crisi e decadenza – economica e geopolitica – degli USA, seguita però da un monito a non sottovalutare la proverbiale capacità dell'America di rialzarsi e tornare a difendere il suo primato.
Il suo nuovo pezzo non è molto diverso. “L'America si sta spegnendo?” si domanda in esordio, subito ammettendo che “Sembra strano dire questo di un Paese che domina in modo tanto forte le industrie del futuro. Dove altro Facebook avrebbe potuto evolvere da scherzo di uno studente a una società da 100 miliardi in meno di un decennio?”
Eppure, ammonisce Wooldridge, la questione potrebbe essere grave.
La sua analisi è in sostanza una recensione del nuovo numero della Harvard Business Review, dedicato alla “competitività dell'America”. Per un verso, molti dei saggi contenuti nella rivista dipingono gli Stati Uniti come un Paese in crisi, che sta perdendo la propria capacità di creare posti di lavoro di qualità, mentre la sua classe dirigente appare da anni più interessata ad incrementare i propri privilegi che a perseguire la crescita.
Al contempo, però, altri interventi tendono a spiegare “che, come disse Bill Clinton nel suo primo discorso inaugurale, non c'è niente di sbagliato in America che non possa essere curato con ciò che c'è di giusto in America. Il paese ha enormi punti di forza, dalle sue strepitose università alla sua sopportazione per l'assunzione di rischi. Ha un mercato molto diversificato: le imprese che cercanomanodopera a basso costo possono sempre spostarsi in Mississippi, dove i salari sono inferiori di un terzo rispetto a quelli del Massachusetts...”
Nel complesso, però, la sensazione complessiva espressa dagli studiosi di Harvard è, secondo Wooldridge, quella di un presagio funesto, a causa del cattivo stato della politica di Washington: imprevedibile, instabile, incapace di ragionevoli compromessi: “Intanto il deficit vegeta e la spesa dello stato sociale continua a lievitare, mentre le strade d'America si screpolano. Questa non è una ricetta per il dinamismo.”

venerdì 17 febbraio 2012

"OPERAZIONE NARVALO", L'ARMA SEGRETA DI OBAMA

Nel 1996, la campagna elettorale per la conquista della Casa Bianca fu segnata dal debutto di una rivoluzionaria novità tecnologica: la pagina web dei candidati. Nel 2000, la grande novità fu l'utilizzo di Internet per raccogliere finanziamenti elettorali; nel 2004, fu la volta dell'utilizzo della rete per organizzare eventi elettorali.
Quella del 2008 è stata la campagna elettorale dei social network, soprattutto grazie all'utilizzo fattone dallo staff di Barack Obama nel quale, non a caso, lavorava uno dei cofondatori di Facebook, il 24enne Chris Hughes (il biondino compagno di stanza di Zuckerberg ad Harvard e suo compagno di avventura nell’impresa che anni dopo sarebbe stata immortalata nel film "The Social Network"). Era stato lui a concepire e dirigere il sito My.BarackObama.com, dove nuovi simpatizzanti confluivano spontaneamente con il passaparola telematico toglirendo valore ai vecchi indirizzari detenuti dal network di candidati più navigati come Hillay Clinton. Oltre a tenersi in contatto con il quartier generale della campagna come tradizionalmente era sempre avvenuto, ora i simpatizzanti si tenevano in contatto anche fra di loro, costruendo a costo zero un nuovo tipo di militanza più “orizzontale”.
E ora, quale sarà la novità nelle elezioni di quest'anno? Quando alla vigilia delle ultime midterm il mitico Filippo “Nomfup” Sensi lo chiese a Sam Graham-Felsen , che nel 2008 aveva guidato il blog elettorale di Obama, la risposta parve deludente: “Sinceramente, per le campagne elettorali, la killer app resta la posta elettronica. E credo sarà così anche nei prossimi anni. Forse la geolocalizzazione avrà un impatto interessante sulle prossime elezioni perché renderà più facile che mai fare una campagna sul territorio, ad esempio per il porta a porta".
Quella risposta racchiudeva però qualcosa di molto meno banale di quanto potesse apparire. Lo svela ora l'esperto Sasha Issemberg in un imperdibile pezzo appena uscito su Slate con il titolo “La Balena Bianca di Obama”. A quanto pare nel quartier generale di Chicago – la “bestia perfetta” recentemente raccontata qui in anteprima da Mario Platero - si sta mettendo a punto un sistema di information-sharing che consentirà di creare un dettagliato profilo di ognuno dei milioni di simpatizzanti dei quali il comitato elettorale ha un indirizzo email. Questo tipo di database andrà a sostituire il tradizionale indirizzario: oltre a tener conto di dove il singolo simpatizzante risiede (come ci si limitava a fare quattro anni fa, registrandone il codice di avviamento postale), si tiene “automaticamente” conto della sua età, del suo sesso, del suo grado di istruzione, della sua professione, del suo credo religioso; inoltre il sistema considera la sua registrazione elettorale (se risulta essere un elettore democratico, repubblicano o indipendente) e se possibile si tene conto di quali sono le questioni che risultano stargli a cuore, ad esempio perché si sa che in passato si è già mobilitato.
Questo consente di inviare delle email molto meno anonime e asettiche di quelle utilizzate un tempo. Basta con i soliti appelli a donare denaro o a firmare banali petizioni: il futuro è inviare messaggi differenziati, non lo stesso messaggio a tutti. Messaggi più forti e più provocatori a chi si presume li apprezzerà, messaggi più moderati ad altri, nessun messaggio a chi su quel determinato tema conviene non contattare affatto. Un sistema di email “intelligenti”, insomma, che consentirà di comunicare la stessa cosa nello stesso istante in dieci modi diversi ad altrettante categorie diverse di destinatari. Ad esempio: un messaggio elettorale che polemizza contro la posizione dei repubblicani in tema di contraccezione, che un tempo per timore di urtare la sensibilità di simpatizzanti troppo moderati o troppo religiosi non sarebbe stato inviato affatto o sarebbe stato inviato solo in una versione soft e solo ai residenti nelle zone del Paese ad orientamento più progressista, ora si potrà inviare ovunque perché lo si invierà solo a chi si sa essere ben disposto in quel senso. Non solo: se ne potrà inviare una versione molto più radicale a determinati elettori (esempio: giovani donne democratiche che non vanno in chiesa la domenica), e una molto più moderata ad altri. Altrettanto sui diritti dei gay, e così via. E ancora: non si molesterà più a vuoto con richieste di donazioni a chi abbia già versato tutti i 2.500 dollari consentiti dalla legge, perché l'invio di quelle richieste verrà automaticamente limitato solo a chi non abbia ancora raggiunto quella cifra.
Questa sofisticazione, che per ragioni ancora oscure viene portata avanti con il nome in codice di “Operazione Narvalo” (dal nome del cetaceo unicorno dell'Artico), e sulla quale lo staff del presidente è per ora molto restio a lasciar trapelare troppi dettagli, potrebbe essere l'“arma segreta” delle prossime elezioni. Di certo rapprresenta un sogno proibito, una sorta di pietra filosofale della comunicazione politica, che darà da discutere agli spin doctor di mezzo mondo nei prossimi mesi.

mercoledì 15 febbraio 2012

MITT ROMNEY, IL "FIGLIO" DI DETROIT CHE VOLEVA LASCIARLA FALLIRE

Il 18 novembre del 2008, ad un paio di settimane dall'elezione di Barack Obama, Mitt Romney fece quella che si può considerare la sua primissima mossa in vista della sua potenziale candidatura alle primarie del 2012: uscì con un corsivo sul New York Times contro gli aiuti di Stato alle industrie automobilistiche in crisi. Titolo: "Lasciate fallire Detroit". Rivendicando il fatto di essere nato e cresciuto a Detroit e di essere il figlio di quel George Romney che non solo fu governatore del Michigan, ma fu anche un manager dell'industria automobilistica, Mitt proponeva l'"amministrazione controllata" come alternativa al bailout, il salvataggio con i sussidi governativi. L'amministrazioen controllata non è esattamente il fallimento puro e semplice, ma è pur sempre qualcosa che ci va molto vicino - e comunque contiene quella parola terribile, bankruptcy, destinata a restare e a pesare. Romney non stava dicendo una sciocchezza. In linea di principio aveva ottime ragioni, soprattutto per un sostenitore del libero mercato; molti tra i repubblicani erano contrari, del resto. Ma lui aveva ambizioni presidenziali, e con il senno di poi era forse il caso di usare maggiore cautela, soprattutto nei toni.
Sappiamo come è andata: Chrysler e General Motors grazie agli 81 miliardi di dollari elargiti dal governo hanno evitato il fallimento e sono tornate a produrre e ad assumere. Di certo non era l'unica soluzione possibile: lo dimostra il caso della Ford, che non ha fatto ricorso ai sussidi pubblici ed è altrettanto in buona salute. Ai contribuenti americani operazioni come quella Chrysler-Fiat sono costate uno sproposito e forse con tutti quei soldi si poteva fare di meglio; ma è andata così, e ora agli elettori di Motor City vallo a spiegare che era meglio il "fallimento". 
Nell'agosto del 2010 Obama, affiancato da Sergio Marchionne, tenne un comizio presso lo stabilimento di Jefferson North (appena fuori Detroit) della Chrysler. Parlando agli operai scampati al licenziamento, e rivendicando il fatto che nel settore dell'auto erano riprese le assunzioni (che peraltro, lo ripeto, erano riprese anche presso la Ford, che pure non aveva attinto al “salvataggio” statale; ma agli operai della Chrysler e della GM questo giocoforza non importa granché), il presidente volle “ricordare che se al governo fosse andata certa gente, tutto ciò non sarebbe accaduto. Questa fabbrica, ed il vostro posto di lavoro, oggi forse non esisterebbero”. Pochi giorni dopo l'Economist, che nel 2008 aveva deprecato il bailout con argomenti simili a quelli di Romney, porse al presidente delle scuseNegli scorsi giorni le polemiche sullo spot "Halftime in America" con Clint Eastwood hanno dato la misura di come questa storia peserà sulle prossime elezioni, e di quanto per i repubblicani sarà difficile maneggiare la questione senza passare da disfattisti. Per un repubblicano più che per altri, però: Romney non può permettersi di perdere la primaria del Michigan del 28 febbraio, e visti i pessimi sondaggi di questi giorni deve correre ai ripari.

Ieri è uscito su un quotidiano locale, il Detroit News, un suo corsivo con il quale ha cercato di giustificare, senza rimangiarsela, la sortita del "Lasciate fallire Detroit": rivendicato ancora una volta il fatto di essere "figlio" della città più colpita dalla crisi, ha sfidato il governo a cessare la propria partecipazione in General Motors acquisita con il salvataggio (i repubblicani da sempre polemizzano contro questa "partecipazione statale" in stile seurosocialdemocratico, ironizzando sulla "Government Motors"), e soprattuto ha cercato di spiegare che i posti di lavoro si sarebbero potuti salvare anche con l'amministrazione controllata, che le grandi industrie automobilistiche in crisi sarebbero state chiuse per poi subito riaprirle più forti e dinamiche di prima, senza addossare tutta quella spesa ai contribuenti e senza fare tutti quei favori clientelari al sindatcato, grande elettore di Barack Obama.Ma la spiegazione è complicata e lascia il tempo che trova: quello che resta, nella testa della gente, è quella frase, che resta uno slogan "tossico" da usare contro di lui. Già a novembre il Partito Democratico ci aveva cucinato due spot: questo    
e questo
A proposito di spot: sempre ieri è uscito il primo a sostegno di Romney in vista del voto in Michigan. Non è uno spot negativo contro Rick santorum; è uno spot biografico su Mitt, intimista, minimalista. Il titolo, "growing up", è anche quello di una canzone del Bruce Springsteen dei tempi migliori. 
Eccolo: 


venerdì 10 febbraio 2012

LA RIVOLTA DEGLI INTELLETTUALI "POST-AMERICANI"

Questa storia di Barack Obama che si entusiasma per l'anti-declinismo del neoconservatore Bob Kagan, sfidando sfacciatamente il fatto che si tratti di un consigliere del suo aspirante sfidante Mitt Romney (ne avete letto quidieci giorni fa), proprio non va giù ai teorici dell' "era post-americana" che un tempo si consideravano i teorici della visione obamiana del mondo. Una settimana fa il principale "scaricato", Fareed Zakaria, è insorto sulle pagine del Washington Post, lanciando i suoi strali direttamente contro Romney in forma di lettera aperta ("Il mondo è cambiato, Signor Romney"). Questa settimana lo ha raggiunto Charles Kupchan.
Politologo del Council of Foreign Relations, docente alla Georgetown University, consigliere della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, suola liberal-realista come Zakaria, Kupchan - che nel 2008 ha dato alla candidatura di Obama un endorsement al limite della crisi mistica - dieci anni or sono aveva scritto un saggio dall'eloquente titolo "La fine dell'era americana"nel quale teorizzava l'avvento di una sorta di scontro di civiltà tra l'obsoleta superpotenza statunitense e l'emergente sfidante destinato a soppiantarla, rappresentato (a rileggerlo oggi fa sorridere, e lui stesso oggi si è disilluso) dall'Unione Europea. Ebbene: quattro giorni fa Kupchan  (che peraltro ieri era intervistato da mario Platero su America24 sulle relazioni Italia-USA) ha messo i piedi nel piatto con un saggio pubblicato da Foreign Policy con il titolo "Mi spiace, Mitt: non sarà un secolo americano", nel quale, imitando Zakaria, si rivolge anch'egli direttamente contro il frontrunner repubblicano, criticando come una cialtroneria l'idea che ci si possa ancora ostinare a rivendicare la leadership globale americana, che ormai è superata dai fatti: "Il PIL della Cina raggiungerà quello dell'America nel corso del prossimo decennio. La Banca Mondiale prevede che il dollaro, l'euro e il renminbi cinese verranno equiparati in un sistema monetario "multi valuta" entro il 2025. La Goldman Sachs si aspetta che la somma dei PIL dei principali quattro paesi in via di sviluppo - Brasile, Cina, India, e Russia - eguagli quella dei paesi del G-7 entro il 2032"... E quindi occorre "adattarsi all'ascesa degli "altri", aggiungendo posto a tavola per i nuovi arrivati". In definitiva, secondo Kupchan Obama non deve temere l'accusa che Romney gli muove di essere un presidente "post-americano", ed anzi deve raccogliere la sfida di questo dibattito "e non lasciare che i suoi avversari si nascondono dietro il velo dell'eccezionalismo americano".
Il giorno dopo, l'articolo di Kupchan è stato criticato sempre su Foreign Policy dal suo collega conservatore Will Inboden, il quale ha così sintetizzato la disparità di vedute tra Obama e i repubblicani nella diatriba sul "declino americano": "L'uno e gli altri concordano nel constatare che le dinamiche di potere globali si stanno spostando. Solo che il presidente Obama, quanto meno nell'analisi Kupchan, vede questi spostamenti come una ragione per rivedere la leadership americana, mentre Romney e molti altri repubblicani vedono i cambiamenti come un'opportunità per rilanciare una nuova leadership americana nel dar forma al nuovo ordine emergente".
Qui da noi il giorno stesso sul Foglio (che nel 2003 aveva pubblicato a puntate tutto il saggio "Paradiso e potere" di Kagan, e negli scorsi giorni ha fatto altrettanto con la traduzione del suo nuovo saggio per il quale Obama ha mostrato tanto apprezzamento) è uscito un lungo editoriale del direttore Giuliano Ferrara, nel quale si imputa ad Obama l'errore diametralmente opposto: quello di sposare le tesi di kagan solo a parole, e assieme ad altre di tutt'altro segno, in modo da confondere le acque in vista della campagna elettorale. "Se il grande bluff" - scrive Ferrara - sarà chiamato in modo convincente da un candidato repubblicano compos sui, magari Romney, possiamo forse sperare in una svolta nel segno della chiarezza delle scelte".
Una cosa è certa: la diatriba non finisce qui.

HEY MITT, ASPETTA UN MOMENTUM

Febbraio doveva essere il mese di Mitt Romney. Dopo aver vinto la primaria della Florida lasciando indietro Newt Gingrich di 14 punti percentuali e prendendo da solo più voti di quelli di Gingrich e di Santorum messi assieme, aveva a disposizione tutto il mese per consolidare la sua immagine vincente di uomo solo al comando, e di unico vero sfidante di Obama. E invece. Quando sabato ha vinto i caucus del Nevada molti hanno parlato di trionfo, ma ad un occhio attento si cominciava ad intravedere quakche crepa. Ha preso 16,486 voti, pari al 50% (più del doppio di Gingrich); ma va considerato che nel 2008 ne aveva presi 22,649, allora pari al 51,1% perché l'affluenza era stata molto più alta. Quindi ha vinto con un punto percentuale in meno e con oltre seimila voti meno di quattro anni fa, quando poi perse le primarie.


Dopo la crepa, martedì sono caduti i calcinacci. Il “favorito” ha perso tutte e tre le votazioni in programma: i caucus del Minnesota e del Colorado, e la primaria del Missouri. Sono votazioni che contano zero nell'assegnazione dei delegati alla convention, ma la proporzione di questa tripla sconfitta lascia pensare. 

prosegue su Notapolitica

mercoledì 8 febbraio 2012

NOZZE GAY IN CALIFORNIA, VITTORIA A META'

La sentenza con la quale ieri la Corte d'Appello federale del Nono Circuito degli Stati Uniti, a maggioranza (due giudici su tre), ha confermato la decisione con la quale in primo grado il tribunale federale di San Francisco nell'agosto del 2010 aveva decretato la incostituzionalità del divieto di nozze gay in California, rappresenta un nuovo capitolo di una lunga e tormentata vicenda; e non è detto che sia esattamente il tipo di vittoria cui puntava chi ieri è uscito ufficialmente vincitore da questo ennesimo match.
Tutto era comincato nel 2000, quando gli elettori californiani (maggioranza del 61%, quindi anche molti elettori democratici) avevano approvato -un primo referendum propositivo (“Proposition 22”) che definiva il matrimonio “unione fra un uomo e una donna”. Dopo qualche anno il parlamento della California aveva tentato di ribaltare quel voto, approvando una legge che ridefiniva il matrimonio come “contratto di diritto civile tra due persone”; ma il governatore Arnold Schwarzenegger aveva esercitato il suo potere di veto, annullandola. Poi, nel giugno del 2008 la Corte Suprema della California aveva annullato come incostituzionale (rispetto alla Costituzione californiana) la legge approvata dagli elettori con il referendum del 2000, aprendo la strada ai matrimoni omosessuali nel Golden State.

Il movimento che si oppone al riconoscimento delle nozze gay aveva rilanciato nel novembre 2008, mettendo ai voti, il giorno dell’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca,  un nuovo referendum, il “Proposition 8”, che proponeva di reintrodurre la stessa norma approvata nel 2000 ma stavolta non con una semplice legge, bensì con un emendamento alla Costituzione dello Stato, così che i giudici non avrebbero più potuto rimetterla in discussione. Questo nuovo referendum era stato approvato con una maggioranza del 52%, eliminando nuovamente il matrimonio gay californiano (fermi restando però i circa diciottomila matrimoni celebrati nel semestre che era trascorso tra la sentenza e l’approvazione del referendum).
Infine, nel maggio del 2009 una coppia lesbica - dando il via ad una operazione accuratamente pianificata, che punta dritto dritto alla Corte Suprema di Washington - ha aperto l'ultimo fronte giudiziario, impugnando davanti al Tribunale federale di San Francisco il rifiuto della contea di trascrivere il loro matrimonio. La causa è patrocinata da un collegio legale a capo del quale è stato ingaggiato un celebre avvocato conservatore, Ted Olson, che aveva lavorato per Reagan e per George W. Bush. La sentenza favorevole, giunta nell'agosto del 2010, ha riconosciuto che il divieto di nozze gay non può stare nella Costituzione della California perché è in contrasto con la Costituzione degli Stati Uniti. Se venisse confermata dalla Corte Suprema di Washington, questa decisione porterebbe ad imporre il riconoscimento dei matrimoni omosessuali in tutti i cinquanta Stati dell'Unione. Oggi invece è riconosciuto solo in sei: era partito il Vermont nel 2000, quando era governato da Howard Dean; seguirono Massachusetts, Connecticut, Iowa, New Hampshire, ed infine si è aggiunto nel giugno dell'anno scorso lo Stato di New York (il terzo stato più popoloso degli USA), approvando la proposta del governatore Andrew Cuomo (italoamericano, cattolico, divorziato), che per questo è divenuto la superstar dell'ala piùliberal del Partito Democratico, ed ha destato le ire del vescovo Timoty Dolan, che è anche a capo della Conferenza Episcopale statunitense
Nel frattempo le nozze gay erano state sottoposte a referendum in ben 31 dei 50 Stati (incluso il caso della California, ma anche la Florida e lo stesso Stato di New York), ed in tutti i 31 casi, dal primo all'ultimo, gli elettori avevano votato contro. Sei Stati, però, hanno riconosciuto le unioni civili, pur senza equipararle al 100% ai matrimoni: l'ultimo è stato il Delaware, nel maggio dell'anno scorso, ma tra essi vi è proprio la California, dove si chiamano “Domestic Partnership”. In una dozzina di Stati, tra i quali New York, la Florida e la stessa California, le coppie omosessuali hanno la la possibilità di adottare figli.
Mai come ora per i repubblicani l'opposizione ai metrimoni omosessuali è un vero e proprio cavallo di battaglia: a parte l'"eretico" libertario Ron Paul, tutti gli altri aspiranti candidati in lizza nelle primarie sono contrarissimi e promettono barricate se eletti alla Casa Bianca. 
Quanto a Barack Obama, egli ha lungamente tentato di tenersi il più possibile alla larga da questo scottante argomento. Nel 2008, da candidato, Obama aveva condanna come “discriminatorio” il referendum "Proposition 8", ma si era detto “personalmente” più favorevole al compromesso del riconoscimento delle unioni civili. Recentemente però ha dichiarato che la sua posizione in materia è "in evoluzione"; la sua amministrazione ha fatto decadere il regolamento "don't ask, don't tell" che imponeva ai gay di non dichiararsi per potersi arruolare nell'esercito, ed ha cessato di sostenere nei tribunali la difesa del “Defense of Marriage Act”, la legge approvata nel 1996 che garantiva agli Stati nei quali non esiste il matrimonio omosessuale il diritto di non riconoscere la validità di quelli celebrati in un'altro Stato che invece li contempli.
La sentenza californiana di ieri, comunque, se letta con cura rappresenta una vittoria piuttosto "fredda" per il movimento che si batte per il riconoscimento dei matrimoni omosessuali in tutti i 50 Stati. La motivazione espressa dalla Corte d'Appello, infatti, è diversa da quella formulata in primo grado, e circoscrive la questione al caso specifico del Golden State. La incostituzionalità del "Proposition 8", infatti, è stata confermata non sentenziando che nessuna legge può in alcun modo ostacolare l'accesso degli omosessuali all'istituto del matrimonio (come invece era stato fatto in primo grado), ma solo censurando il fatto che in questo caso specifico la norma introdotta dal referendum aveva privato immotivatamente ed ingiustificatamente una minoranza di un diritto civile che in precedenza le era stato riconosciuto dalla legge, e che invece agli altri è tutt'ora riconosciuto. Questa nuova motivazione, quindi, circoscrive la questione alla specifica vicenda californiana, e paradossalmente non agevola affatto l'approdo della vertenza davanti alla Corte Suprema di Washington. Saranno ora gli oppositori delle nozze gay, nel decidere se impugnare o no questa nuova sentenza, a determinare se la partita si chiude qui o se invece avrà un terzo round di portata nazionale.

lunedì 6 febbraio 2012

CLINT EASTWOOD, DETROIT, IL SUPERBOWL: UNO SPOT ANTI-DECLINISTA


Anche quest'anno, come ogni anno, il SuperBowl è stato anche un piccolo festival di super-spot televisivi, mandati in onda nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo.
Quest'anno il più commentato e più applaudito è stato senza dubbio quello della Chrysler, incentrato su di un testimonial d'eccezione: Clint Eastwood. Come già quello dell'anno scorso con protagonista Eminem, anche quest'anno la casa automobilistica ha puntato tutto sul concetto di "uscire dalla crisi a testa alta", sul "possiamo farcela", proponendo il proprio marchio come simbolo del risalire la china della Grande Recessione. Anche quest'anno, quindi, lo spot è insistentemente ambientato a Detroit, la città del declino e della decadenza ma anche, secondo alcuni, della rinascita.
Molto raffinata in questo senso la scelta di Eastwood, che nel 2008 era stato regista ed attore protagonista del film Gran Torino, ambientato proprio a Detroit, che ritraeva con amaro verismo quella decadenza non solo economica e quel senso di spaesamento. Stavolta invece si è prestato a fare da portavoce del desiderio di riscossa: "Questo Paese non si fa mandare KO con un solo pugno. Se cadiamo ci rialziamo, e quando lo facciamo tutto il mondo sente il rombo dei nostri motori. Forza America, siamo solo a metà partita, ora viene il secondo tempo!". Girerà a lungo questo "Halftime in America" che, volutamente, suona come il reaganiano "Morning in America" di 28 anni fa.

Uscito su Good Morning America

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