mercoledì 24 ottobre 2012

ALLA CASA BIANCA SU PNEUMATICI MADE IN OHIO

"Ora come ora” rifletteva ieri su Twitter Ben Smith, il grande capo del cliccatissimo sito BuzzFeed, “il Team Obama e il Team Romney non conoscono molte più cose di noi. Conoscono molti dettagli, ma alla fin fine nemmeno loro sanno cosa diranno i sondaggi sull'Ohio venerdì prossimo, o lunedì”.

 Già, l'Ohio: ancora l'Ohio, sempre l'Ohio. Del resto, poche ore prima il Wall Street Journal aveva definito “Un dibattito di politica estera per la Contea di Cuyahoga” l'ultimo duello televisivo tra Barack Obama e Mitt Romney, nel senso che “non si è trattato realmente di un dibattito sulla politica estera americana. Si è trattato di un dibattito per far cambiare idea agli elettori indecisi rimasti in posti come la Contea di Cuyahoga, in Ohio”. 

La Contea di Cuyahoga esiste veramente. Essa include la fetta più importante dell'area metropolitana di Cleveland (nonché la cittadina di Parma, dove la settimana scorsa sono accorsi a fare assieme campagna elettorale per Obama le due superstar della sua squadra, Bill Clinton e Bruce Springsteen) ed è la più popolosa di questo Stato, cuore del MidWest arrugginito e deindustrializzato, che giorno dopo giorno, ora dopo ora, sembra sempre più destinato a divenire il fulcro di questa elezione presidenziali, come di molte altre in precedenza del resto.

Il vantaggio di Obama in Ohio, che fino al primo dibattito televisivo con Romney era mediamente di oltre cinque punti percentuali (grosso modo lo stesso vantaggio con il quale Obama aveva battuto McCain in quello stato nel 2008 e anche lo stesso con il quale Bush vi aveva battuto Kerry nel 2004)durante il mese di ottobre si è eroso fino a scendere sotto i due punti. Ma anche se minimo è un vantaggio molto persistente: l'ultimo sondaggio in cui lo sfidante repubblicano risultava in vantaggio nel Buckeye State risale al 4-8 ottobre, all'indomani del dibattito di Denver.
Romney non è mai andato fortissimo in questo Stato: lo si è visto durante le primarie, quando a marzo per battere a stento Rick Santorum nel voto del “Super Tuesday” fece una settimana di campagna elettorale “a tappeto” tutta concentrata sulle grandi aree urbane di Cleveland, Columbus, Daytona-Cinccinnati: la mappa disegnata dall'esito di quel voto è impressionante, il voto per Romney è totalmente concentrato in quelle aree urbane che appaiono come delle enclave, mentre tutto l'Ohio rurale e “di provincia” aveva votato in blocco per Santorum che pure aveva speso appena un quarto in propaganda.
E ora, contro Obama non sembra vada molto meglio.

Innanzitutto il presidente incassa il consenso generato dagli aiuti governativi all'industria automobilistica, un settore nel quale l'Ohio è secondo solo al Michigan (producono lì sia la General Motors che la Chrysler e la Ford, ma anche la Honda; la massima concentrazione degli impianti è nella città di Toledo, che Obama menzionò nel suo ultimo Discorso sullo Stato dell'Unione affiancandola a Detroit e alla sua Chicago in un trittico di produttori di auto made in the Usa che, a suo dire, presto conquisteranno anche i mercati asiatici). Quegli aiuti, per intenderci, ai quali Romney si era fieramente oppostoSecondo Jim Messina, il campaign manager di Obama, in quello Stato appartiene all'industria automobilistica un posto di lavoro su otto. E il mese scorso la disoccupazione nelle zone centrali dell'Ohio è scesa sotto il 6%: il dato migliore dal maggio del 2008, ed uno dei più rosei degli Usa.

Oltre all'industria automobilistica in senso stretto, in Ohio è fondamentale anche quella collaterale e connessa degli pneumatici: sia la Goodyear che la Firestone nacquero qui nella medesima cittadina, Akron (nota anche come Rubber City, la città della gomma).

Per gli imprenditori e gli operai di questo specifico settore Obama è quasi un eroe, da quando nel settembre 2009 scatenò ed affrontò le ire di Pechino per aver imposto nuovi dazi triennali sulle importazioni di pneumatici cinesi per un totale di 1,8 miliardi di dollari, accogliendo le richieste del sindacato United Steelworkers; il governo cinese denunziò quella misura al WTO, ma il ricorso venne rigettato riconoscendo che gli Usa avevano agito per legittima difesa contro una operazione di concorrenza sleale sottocosto da parte dei cinesi (guarda caso, recentemente l'Amministrazione Obama ha a sua volta presentato un ricorso speculare contro i sussidi di Pechino all'industria dell'auto cinese). Nel dibattito di lunedì scorso Obama lo ha rivendicato a muso duro, ricordando agli elettori come Romney si sia opposto anche a quei dazi, il che è vero: nel suo libro elettorale “No Apology” egli boccia quella scelta come mirata a coltivare il bacino dei voti del sindacato a spese dei consumatori, che si sarebbero visti costretti a pagare prezzi “patriotticamente” più alti per i copertoni delle loro auto (“il protezionismo inibisce la competitività”, aggiunse).

Mancano ormai solo due settimane al voto e tutti sembrano dare sempre più per scontato che sia l'Ohio la pedina decisiva nella lotta per la conquista della Casa Bianca. Il sondaggiologo del New York Times Nate Silver ieri notava che se spesso quello che vuole l'Ohio come lo Stato “che elegge i presidenti” è solo un luogo comune, “quest'anno però tutti i cliché sull'Ohio sono veri. In tutte le nostre simulazioni più recenti, l'Ohio conferisce il voto decisivo al Collegio Elettorale in circa il 50% dei casi”.

Se perde in Ohio, Romney potrebbe in teoria vincere lo stesso, ma solo vincendo non solo in Stati dove gli ultimi sondaggi gli accreditano ottime chance come la Florida e il North Carolina, e in altri come Virginia e Colorado dove gli ultimi sondaggi lo danno perfettamente alla pari con Obama, ma anche in Iowa dove è indietro mediamente di un punto e mezzo, in Nevada dove è indietro mediamente di circa due punti, e in New Hampshire dove pure Obama gli sta avanti mediamente di circa due punti (l'alternativa è vincere nel Wisconsin di Paul Ryan, ma per ora lì Obama mantiene un vantaggio mediamente superiore ai tre punti).

Anche per Obama in teoria l'Ohio non è matematicamente un assoluto must-win, ma di fatto è come se lo fosse: il presidente è infatti ormai pressoché spacciato in North Carolina, e a meno che non riesca a riprendere quota in Florida, dove però da tempo Romney gli sta stabilmente avanti con un vantaggio medio di circa due punti percentuali, se perdesse in Ohio avrebbe bisogno di vincere non solo in Wisconsin, in Iowa e in Nevada, ma anche in Virginia, oppure in Colorado. Se invece vincerà in Ohio, come accadrebbe se si votasse stasera, a quel punto gli basterà aggiungere i 10 voti elettorali del Wisconsin ed è fatta, a quel punto Romney potrebbe anche vincere in tutti gli altri stati in bilico eppure anche così perderebbe l'elezione.

martedì 23 ottobre 2012

ROMNEY HA SCOMMESSO SUL CATENACCIO

"A metà del dibattito ho pensato che se avessi trascorso gli ultimi quattro anni su un'isola deserta e fossi appena stato paracadutato in questo dibattito, avrei pensato che quello che avrei poi appreso essere Mitt Romney era il presidente che difendeva la sua posizione dominante, e che Barack Obama era lo sfidante alla disperata ricerca di una rimonta". 
Questo commento di Chris Wallace, conduttore dello show televisivo "Fox News Sunday", è ovviamente tutt'altro che spassionato: è il commento di un tifoso di Romney. Ma c'è del vero in questa valutazione del terzo ed ultimo duello televisivo presidenziale: Romney, pur essendo lo sfidante, hascelto di giocare l'ultimo match in difesa; così come Obama, pur essendo il presidente in carica, ha scelto di giocarlo in attacco. 
Si è quindi assistito ad un Mitt Romney talmente determinato a non reagire agli attacchi di Obama e a non farsi spingere verso destra, da prodursi in innumerevoli dichiarazioni di condivisione delle politiche di Obama ed in affermazioni che i suoi sostenitori probabilmente non si aspettavano ("non possiamo risolvere i nostri problemi semplicemente ammazzando - non vogliamo un altro Iraq, non vogliamo un altro Afghanistan").

La stessa valutazione è del resto condivisa da Candy Crowley, la giornalista della CNN che ha moderato il secondo dibattito: "Penso che il presidente si sia comportato come uno che doveva in un modo o nell'altro stoppare la tendenza favorevole a Romney. Quasi tutte le sue risposte alle domande del moderatore avevano a che vedere con Romney. Per quest'ultimo invece la priorità era non farsi del male. Ho la sensazione che non mirasse a vincere il dibattito, aveva piuttosto l'aria di uno che da tre-quattro settimane, dal primo dibattito, gode di una tendenza favorevole, e non voleva comprometterla".
Nel complesso si può dire che ha vinto Obama, ma balza all'occhio che ha vinto più che altro perché Romney lo ha "lasciato vincere". E quando si tratta di tirare le somme, i giudizi sul secondo dibattito somigliano molto a quelli sul secondo: serpreggia il dubbio che il presidente non abbia vinto "abbastanza".
Secondo Chris Cillizza del Washington Post Obama ieri sera è uscito vincitore perché aveva ancora bisogno di scrollarsi di dosso l'immagine gelida e passiva del primo dibattito, e nonostante abbia giocato sempre in attacco è apparso "di gran lunga quello dei due al comando e sicuro di sè", mentre Romney è uscito perdente "semplicemente perché non ha giocatro per vincere"; su Twitter, però, il commentatore del Washington Post aggiunge una considerazione molto interessante: nel complesso quello che incide di più è ancora il primo dibattito.
Sul Daily Beast, lo spind doctor repubblicano Brett O' Donnell sostiene che Obama ha vinto la battaglia di ieri sera ma Romney ha vinto la guerra dei dibattiti nel suo complesso, poiché il presidente non è riuscito ad ottenere nessun vero KO dell'avversario e quindi non è riuscito ad imprimere alla campagna elettorale un cambio di direzione; e il suo collega Mark McKinnon gli fa eco affermando che le due vittorie di Obama nel secondo e nel terzo dibattito non sono state abbastanza schiaccianti da superare quella nettissima ed inattesa di Romney nel primo.
 Per Mark Halperin di Time quello di ieri sera è stato un pareggio: Obama, "ancora perseguitato dal fantasma del suo fallimento a Denver", non è riuscito a far apparire non-presidenziale ed impreparato l'avversario, ma giocando in attacco si è se non altro mostrato determinato, efficace e convinto delle sue ragioni; Romney ha portato a casa il suo obiettivo principale, ossia quello di apparire come una alternativa credibile ad Obama, e ieri sera specificamente quello di apparire come un ipoteticocommander in chief moderato e misurato.

Per Rich Lowry, direttore della rivista conservatrice National Review, questo equivale ad una vittoria per Romney il quale ha centrato l'obiettivo di"rassicurare la gente sul fatto di non essere un bombarolo, dare un'immagine forte ma non bellicosa, e far presente che su tante scelte politiche di Obama è pure d'accordo, in modo da creare una sensazione di ragionevolezza"; e anche secondo Rick Klein della ABC quella di ieri sera è una vittoria per Romney proprio perché non è successo nulla che possa far invertire la tendenza nelle ultime due settimane di campagna elettorale.

Di opinione opposta Jonathan Chait del New York Magazine, secondo il quale la scelta difensiva di Romney ha lasciato troppo spazio ad Obama, che per la prima volta ha semsso di sembrare John Kerry nel 2004, ed è riuscito a sembrare al contempo un po' Kerry e un po' Bush, lasciando lo sifdante nell'angolo. Il commentatore di The Politico Roger Simon sottolinea che il dibattito finale dà agli elettori l'ultima impressione prima del voto, e che quindi Romney potrebbe essersi suicidato chiudendosi in difesa e lasciando segnare ad Obama tutti quei punti proprio ieri sera; John Cassidy del New Yorker evidenzia invece che la linea ultra-moderata tenuta da Romney ieri sera, essendo in contrasto con ciò che lui stesso ha detto mesi o settimane fa, rischia di essere percepita come la sua ennesima prova di pacchiano opportunismo, sicché "se alla fine vincerà sarà nonostante, e non grazie" alla performanche di ieri sera. Ma la considerazione più caustica è forse quella espressa nell'editoriale del Los Angeles Times, sagacemente titolato"Endorsement di Romney ad Obama": a forza di mostrarsi d'accordo con il presidente in carica su tante questioni di politica estera, Romney potrebbe aver commesso l'imprudenza di lasciare agli elettori la sensazione che in fondo, se su tante cose la gestione di Obama è ok, allora non c'è ragione di sostituirlo.

 Quanto agli instant-poll, tutti hanno assegnato ad Obama la "vittoria" del dibattito; ma sia in quello condotto dalla CNN che in quello effettuato dalla PPP (legata al Partito Democratico) gli intervistati che si sono dichiarati "ora più inclini a votare per Romney" non sono risultati meno di quelli "ora più inclini a votare per Obama", anzi sono risultati in lievissima maggioranza, di un punto percentuale in entrambi i casi (il 25% contro il 24 nel sondaggio CNN, il 38% contro il 37 in quello PPP). Nel risultato del sondaggio PPP c'è poi un dato particolarmente spiacevole per Obama: tra gli elettori "indipendenti", che a due settimane dal voto dovrebbero in teoria essere quelli che fanno la differenza, solo il 32% si sono detti ora più inclini a votare per Obama e ben il 48% si sono detti più restii; al contrario, il 47% si sono detti ora più propensi a votare per Romney e solo il 35% più restii. Inoltre, nel sondaggio CNN ben in 60% degli intervistati ha dichiarato di aver avuto l'impressione che Romney sarebbe in grado di fare il presidente.  

lunedì 22 ottobre 2012

IL GIORNO CHE SI SFIORO' L'ARMAGEDDON

È lunedì anche allora, come domani, il 22 ottobre del 1962. Sono le sette di sera, quando all’improvviso il placido intrattenimento televisivo di un’America ancora in bianco e nero viene interrotto da un messaggio a reti unificate. Il presidente Kennedy appare seduto alla sua scrivania. Il viso teso, lo sguardo gelido.
 «Buonasera, concittadini. Questo governo, come promesso, ha mantenuto sotto stretta osservazione le installazioni militari sovietiche sull’isola di Cuba. Durante la settimana scorsa prove inequivocabili hanno reso chiaro il fatto che una serie di siti missilistici offensivi è ora in allestimento su quell’isola prigioniera. Il fine di queste basi non può essere altro che quello di rendere possibile un attacco nucleare contro l’Emisfero Occidentale». 
“Mantenuto sotto stretta osservazione” un accidenti. In realtà la Casa Bianca si era accorta in ritardo dell’accaduto a causa di un improvvido auto-oscuramento di quarantacinque giorni. All’epoca non c’erano i satelliti: lo spionaggio dall’alto si faceva sorvolando il territorio nemico con aerei ultraleggeri, i famigerati U2, dai quali si scattavano fotografie a raffica. Nel 1960 i sovietici ne avevano abbattuto uno mentre sorvolava la Siberia, e ne era nato un imbarazzante incidente diplomatico.

Da allora “U2” era diventata una parola scabrosa. Su Cuba volavano spesso nel 1962, perché la Cia aveva captato strani movimenti sull’isola. Decollavano da Orlando, in Florida, dove non torreggiava ancora il castello di Walt Disney World. Il 29 agosto nelle foto di uno di quei sorvoli un analista della Cia aveva riconosciuto la rampa di lancio di un Sam, un missile terra-aria sovietico: la stessa arma contraerea che aveva abbattuto l’U2 sopra la Siberia due anni prima. Ma di lì a due mesi si sarebbero tenute le elezioni di mezzo termine, e in campagna elettorale Kennedy non voleva tensioni internazionali: non appena letto il rapporto, aveva ordinato di insabbiarlo («lo metta in una scatola e inchiodi il coperchio»). Poi, il 9 settembre un U2 decollato da Taiwan era “andato perso” in Cina, e per il presidente era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: aveva ordinato di sospendere tutti i voli su Cuba. John McCone, il nuovo direttore che JFK aveva messo a capo della Cia dopo il disastro della Baia dei Porci, aveva fatto il diavolo a quattro per ottenere il ripristino dei sorvoli: gli informatori all’Avana riferivano di sempre più intensi movimenti sull’isola, era chiaro che non ci si poteva permettere proprio allora quello che gli storici avrebbero ricordato come il “photo gap”. Il caso volle che proprio in quei giorni cruciali, mentre le corazzate sovietiche solcavano l’Atlantico portando verso i Caraibi le testate nucleari, McCone – il quale, vedovo sessantenne, si era appena risposato – lo avesse attraversato in direzione opposta per recarsi in viaggio di nozze a Cap Ferrat, in Costa Azzurra.
Da là aveva continuato a spedire e farsi spedire dispacci sulla questione (pare che un funzionario che a Langley curava quella corrispondenza avesse a un certo punto sbottato: «Comincio a dubitare che il vecchio sappia cosa deve fare durante la luna di miele»). Ma con i mezzi di comunicazione del tempo la distanza pesava: solo al suo rientro, e dopo dieci giorni di discussioni, McCone aveva infine strappato a Kennedy l’autorizzazione ad un nuovo sorvolo. L’U2 era decollato da Orlando domenica 14 ottobre. Aveva sorvolato la parte occidentale di Cuba, ed aveva scattato un centinaio di foto – neanche a farlo apposta, proprio mentre il Consigliere Nazionale per la sicurezza McGeorge Bundy, intervistato nel programma della Abc “Issues and Answers”, spiegava agli elettori che era da escludere qualsiasi ipotesi che i sovietici avessero installato nell’isola caraibica «una significativa capacità offensiva». 

Per tutta la giornata di lunedì 15 ottobre quelle foto erano state esaminate febbrilmente nel Centro di Interpretazione Fotografica della Cia, che si trovava a Washington DC nascosto sopra una concessionaria d’auto. Alla fine erano giunti alla conclusione che quelle che l’U2 aveva fotografato erano proprio rampe per il lancio di missili terra-terra, in grado di colpire con testate nucleari qualsiasi città della costa orientale degli Stati Uniti, ed anche la costa del Golfo del Messico e buona parte del Texas. Tredici minuti per colpire Washington. 
Kennedy aveva formato immediatamente un “Comitato Esecutivo” di crisi, presto soprannominato ExComm. La gran parte di quelle riunioni vennero segretamente registrate, e negli anni quelle registrazioni sono state desecretate e sbobinate: oggi possiamo essere una mosca sul muro e conoscere parola per parola quelle discussioni. All’inizio il presidente non si capacitava: «Perchè Krusciov li ha messi proprio lì? Che vantaggio ne trae? È come se, all’improvviso, noi cominciassimo a mettere un numero significativo di missili atomici in Turchia: sarebbe dannatamente pericoloso, immagino». «Beh, noi lo abbiamo fatto, signor presidente» gli risponde Bundy dopo un momento di imbarazzato silenzio. Kennedy non se ne ricordava nemmeno, ma per Krusciov quei missili erano un tormento. A volte mentre si trovava sul Mar Nero con qualche ospite puntava il binocolo all’orizzonte e ringhiava: «Sai cosa vedo? Vedo missili americani in Turchia, puntati sulla mia dacia».Sul piano militare Mosca non aveva speranze di pareggiare il conto: le testate nucleari americane erano cinquemila, quelle sovietiche trecento – un rapporto di uno a diciassette. L’installazione a Cuba avrebbe avuto un significato più che altro psicologico e politico. Ma ciò che davvero aveva spinto Krusciov a ad avventurarsi nei Caraibi era stata la volontà di salvare la rivoluzione cubana. Dopo la Baia dei Porci, i Kennedy non avevano abbandonato l’idea di invadere Cuba: l’avevano solo rinviata a data da destinarsi. E nel frattempo avevano deciso di perseguire con altri mezzi lo stesso fine. 

Nel novembre del 1961 Bobby aveva messo in piedi, sotto la propria personale supervisione, la cosiddetta Operazione Mongoose (“mangusta”), una serie di “azioni coperte” da condurre sull’isola per far scoppiare una rivolta o assassinare il tiranno. Nel gennaio del 1962, in un discorso al team della missione, aveva definito la deposizione di Castro «la priorità assoluta del governo americano; tutto il resto è secondario, non ha da esservi risparmio né di tempo, né di denaro, né di impegno, né di risorse umane». Quando Fidel e Che Guevara lo avevano scoperto erano andati a Mosca a chiedere protezione, e l’avevano prontamente ottenuta. Cuba era l’unico paese al mondo ad aver adottato un regime comunista spontaneamente, senza coercizione: «Se fosse caduta», avrebbe spiegato Krusciov nelle sue memorie, «gli altri paesi latino-americani ci avrebbero respinti». E così, Kennedy si era ritrovato i missili sovietici nel giardino di casa. 

Fin dalle prime riunioni l’ExComm si era diviso tra i falchi che volevano un bombardamento a sorpresa e le colombe che preferivano limitarsi ad un blocco navale, temendo che un’escalation militare sarebbe presto degenerata nell’Armageddon. Le bombe atomiche di allora non erano più a fissione come quelle sganciate nel 1945 sul Giappone: negli anni Cinquanta si era passati a quelle a fusione, mille volte più potenti.
Dieci giorni fa i National Archives hanno ottenuto dagli eredi di Bobby Kennedy l’autorizzazione a pubblicare sette scatoloni di documenti personali dell’allora Ministro della Giustizia (che però partecipava a quelle riunioni più che altro come alter ego del fratello presidente) fino ad oggi rimasti segreti. 

Un appunto manoscritto da Bobby durante la seconda riunione testimonia una votazione per contare quanti erano per l’embargo e quanti per il bombardamento. Tra i primi ci sono i nomi di McNamara e il Segretario di Stato Dean Rusk; tra i secondi quelli di Bundy e di McCone, e di tutti i presenti in uniforme. Undici voti per l’embargo, sette per l’attacco. I fratelli Kennedy non sono inclusi nella votazione, ma sappiamo dalle registrazioni audio che Bobby era inizialmente tra i falchi. Poi però si era reso conto che questo avrebbe significato un bombardamento a sorpresa. Il secondo giorno aveva passato a suo fratello un biglietto: «Ora so come si sentiva Tojio mentre pianificava Pearl Harbor». L’indomani Bobby aveva messo sul tavolo il suo scrupolo morale: «Per centosettantacinque anni, non siamo stati quel genere di paese». Ma era rimasto a favore dell’intervento militare, purché non a sorpresa. Il blocco navale, diceva, richiede troppo tempo per strangolare il nemico – mesi, probabilmente. Se Mosca voleva la guerra, allora tanto valeva trovare un pretesto per sferrare il primo colpo e invadere Cuba. «Affondare un’altra volta il Maine», disse con sinistro riferimento alla corazzata che gli Stati Uniti avevano inviato all’Avana nel 1898, ai tempi della insurrezione anti-spagnola: fu fatta esplodere, gli americani diedero la colpa agli spagnoli e quello fu per gli Stati Uniti il casus belli per entrare in guerra contro la Spagna e liberare l’isola. Si poteva inscenare un remake? Nel dubbio, quaranta navi da guerra furono inviate a Porto Rico per prepararsi all’invasione (Operazione “ortsac”, “castro” al contrario). 
Tutto questo era accaduto all’insaputa del popolo americano – di quasi tutta la popolazione mondiale in effetti, fuorché poche decine di persone. Finché, dopo una settimana di tormentate discussioni, domenica 21 ottobre Kennedy aveva deciso: intrappolato tra l’alternativa dell’Armageddon e quella della resa, avrebbe tentato di divincolarsi aprendo una trattativa. La marina militare americana sarebbe stata schierata a bloccare la strada alle otto navi russe in viaggio attraverso l’Atlantico cariche di altre testate; nel frattempo Mosca avrebbe ricevuto l’intimazione di ritirare i missili già schierati, pena il bombardamento dell’isola.
 È questo il piano che JFK spiega agli americani e a tutto l’Occidente – ma anche al Cremlino – nel suo discorso a reti unificate di quel lunedì 22 ottobre. Gioca d’anticipo: non vuole lasciare ai sovietici il vantaggio di annunciare la presenza di quei missili spacciando la tesi di una loro funzione difensiva. «Nessuno è in grado di prevedere esattamente il corso degli eventi o quali saranno i costi o le perdite... Ma il pericolo più grande di tutti sarebbe stato non fare niente». Il guanto di sfida è lanciato: il mondo si prepara al peggio. Mercoledì con un telegramma (non esisteva ancora il “telefono rosso”) Kruscev risponde che ogni interferenza contro le navi sovietiche in rotta verso Cuba verrà considerata come un “atto di pirateria” e una dichiarazione di guerra. «Quella sera andammo a casa con in tasca i tesserini per accedere ai rifugi segreti antiatomici, convinti che quella sarebbe stata l’ultima notte del mondo come lo avevamo conosciuto» avrebbe raccontato molti anni dopo Pierre Salinger, il portavoce di JFK. «Aspettammo che accadesse qualcosa», avrebbe scritto a crisi finita il direttore del New Yorker, «misurandoci un minuto dopo l’altro con la nostra dolorosa ignoranza di ciò che il minuto successivo avrebbe portato con sé, e sentendo su di noi il peso morto della convinzione che nessuno sulla Terra – non il presidente, non i russi – potesse saperlo». 
Decenni più tardi l’apertura degli archivi sovietici avrebbe rivelato che Kruscev e i suoi erano altrettanto inorriditi dall’idea di andare fino in fondo: bluffavano. Gli unici che davvero bramavano “la bella morte” per la causa socialista, a costo di trascinare al macello la popolazione di mezzo emisfero, erano Castro e Guevara. Nel momento di massima tensione Krusciov ricevette un telegramma di Fidel che diceva: «Dovremmo lanciare per primi un attacco nucleare». Bel paradosso: il Cremlino aveva mandato i missili per proteggere Cuba; Castro invece smaniava di immolarla.
Quando Krusciov lo capì, diede ordine di ritirarsi «prima che sia troppo tardi, prima che accada qualcosa di terribile». Le navi sovietiche fecero dietro front a poche miglia dalla linea di blocco; dopodiché, sabato 27 ottobre, la riunione mattutina alla Casa Bianca venne interrotta da un lancio della Associate Press: «Mosca - il Premier Kruscev ha annunciato al presidente Kennedy che ritirerà le armi offensive da Cuba se gli Stati Uniti ritireranno i loro missili dalla Turchia». Ufficialmente non fu quello l’accordo: l’Unione Sovietica, si disse, ritirò i missili accontentandosi della promessa da parte degli Usa di non tentare mai più di invadere Cuba. Ma vent’anni dopo fu rivelato che in realtà era stato concesso a Kruscev anche il ritiro dalla Turchia degli Jupiter della Nato “puntati sulla sua dacia”, solo che questa seconda contropartita era passata solo il tavolo: si poteva fare, solo a patto che rimanesse un segreto – e lo rimase, finché non furono gli americani a svelarlo. Fidel seppe dell’accordo a cose fatte, e per la rabbia ruppe uno specchio con un pugno, ferendosi. Di fatto, Castro fu l’unico protagonista di quella crisi a viverne l’esito come una disfatta: era solo una pedina di scambio. Eppure è grazie a quell’accordo se a distanza di mezzo secolo lui è ancora lì; John Kennedy, invece, sarebbe vissuto ancora solo un anno e un mese.
Uscito su L'Opinione

domenica 21 ottobre 2012

KENNEDY A UN PASSO DAL BARATRO


Non sapremo mai cosa passò per la testa del Consigliere per la Sicurezza Nazionale McGeorge Bundy quella mattina di cinquant'anni fa, mentre, in un ufficio dell'Ala Ovest della Casa Bianca, studiava gli ingrandimenti delle fotografie scattate dall'U2 che aveva sorvolato Cuba due giorni prima. Per quarantacinque giorni l'intelligence americana era rimasta al buio, senza immagini aggiornate dei movimenti sul suolo cubano. Dopo lo scandalo dell'U2 abbattuto dai sovietici nel 1960 mentre sorvolava la Siberia, la questione degli aerei-spia era divenuta fonte di crescente imbarazzo per la Casa Bianca; il 9 settembre un altro U2 americano decollato da Taiwan era “andato perso” in Cina, e a quel punto Kennedy aveva ordinato di sospendere tutti i voli su Cuba. La Cia era assolutamente contraria. John McCone, il nuovo direttore che Kennedy aveva messo a capo dell'Agenzia dopo il disastro della Baia dei Porci, era sempre allarmato da sempre più frequenti segnalazioni di strani movimenti sull'isola. Dopo dieci giorni di tormentate discussioni aveva strappato l'autorizzazione a quel nuovo sorvolo per domenica 14 ottobre, nonostante alcuni consiglieri di Kennedy – Bundy in testa – continuassero a liquidare con sufficienza i suoi moniti come ansie maniacali.
Le foto di quella maledetta domenica – quasi un centinaio, in sei minuti – ritraevano una verità agghiacciante quanto umiliante. Erano state scattate proprio mentre Bundy, intervistato nel programma della Abc “Issues and Answers”, smentiva qualsiasi ipotesi che i sovietici avessero installato nell'isola caraibica “una significativa capacità offensiva”. E invece, secondo gli analisti che le avevano esaminate per più di ventiquattr'ore nel Centro di Interpretazione Fotografica della Cia (nascosto sopra una concessionaria d'auto a Washington Dc), quelle che si vedevano nelle foto erano proprio rampe per il lancio di missili terra-terra. Missili russi, in grado di colpire con testate nucleari qualsiasi città della costa orientale degli Stati Uniti, ed anche la costa del Golfo del Messico e buona parte del Texas. Testate da venti a settanta volte più potenti di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Durante quelle cruciali settimane di auto-oscuramento era accaduto proprio ciò che la Casa Bianca, pressata dai repubblicani in vista delle imminenti elezioni di mezzo termine, si era ostinata a negare. Bundy si precipitò nell'appartamento del presidente al secondo piano, e gli mostrò le foto. Ed ebbero così inizio i tredici giorni più drammatici della storia della Guerra Fredda.
Le riunioni segrete del Comitato Esecutivo di crisi vennero tutte registrate dal sistema audio segreto che il presidente aveva fatto attivare poche settimane prima pensando ad una autobiografia. E quelle registrazioni tra il 1997 e il 2011 sono state tutte desecretate. «Perché li hanno piazzati proprio lì?» chiede Kennedy il primo giorno. «Che vantaggio ne trae? È come se, all'improvviso, noi cominciassimo a mettere un numero significativo di Mrbm (missili atomici a medio raggio, ndr) in Turchia: sarebbe dannatamente pericoloso, immagino». «Beh, noi lo abbiamo fatto, signor presidente» gli risponde Bundy dopo un momento di imbarazzato silenzio. Kennedy a quanto pare non se ne ricordava. L'aveva autorizzata lui meno di un anno prima la installazione di missili nucleari Jupiter in Turchia, vicino al confine con l'Unione Sovietica. Ma l'aveva già dimenticato. Krushev però no. Non si dava pace. A volte mentre si trovava sul Mar Nero con qualche ospite puntava il binocolo all'orizzonte e ringhiava: «Sai cosa vedo? Vedo missili americani in Turchia, puntati sulla mia dacia». Aveva voluto pareggiare il conto. Politicamente, più che altro: sul piano militare la parità era assolutamente fuori portata. Il numero di testate nucleari americane era diciassette volte superiore a quelle sovietiche: l'installazione a Cuba poteva anche raddoppiare o persino triplicare il potenziale strategico dei russi, ma anche così non sarebbe cambiato granché.
Il punto era che la rivoluzione cubana era in pericolo. Dopo la Baia dei Porci, i Kennedy avevano temporaneamente accantonato l'idea dell'invasione ma avevano proseguito con altri mezzi. Bobby sovrintendeva dal novembre del 1961 la cosiddetta “Operazione Mangusta”, la pianificazione di 33 diverse azioni (come 33 sono le varietà della mangusta) per rovesciare Castro: dall'assassinio del dittatore, al colpo di stato, al boicottaggio di varie infrastrutture. Fidel e Che Guevara lo sapevano, ed avevano chiesto aiuto ai russi. E Kruscev non aveva avuto esitazioni. A pochi mesi dalla costruzione del Muro di Berlino, Cuba era l'unico paese al mondo ad aver adottato un regime comunista spontaneamente, senza coercizione: se fosse caduta, se Mosca non le avesse dato protezione, il Sudamerica e tutto il Terzo Mondo ne avrebbero tratto le conseguenze del caso.
Nella prima riunione del Comitato di crisi il Segretario alla Difesa Robert McNamara è tra i primi a spingere per un attacco militare: un bombardamento a sorpresa, seguito da un blocco navale o dall'invasione che non si era mai smesso di pianificare. Molti la pensano come lui. Ma alla seconda riunione ha già dei ripensamenti. «Non so bene in che tipo di mondo vivremo dopo aver colpito Cuba... dopo aver cominciato, come ci fermiamo?». L'alternativa è un blocco navale accompagnato dalla minaccia di un attacco. Pochi giorni fa i National Archives, dopo una lunghissima negoziazione con gli eredi di Bobby Kennedy (il quale, al solito, presenziava più come fratello-alter ego che come Ministro della Giustizia), hanno ottenuto di pubblicare sette scatoloni (oltre 2.700 pagine) di documenti fino ad oggi rimasti segreti.

In un appunto manoscritto da Bobby durante la seconda riunione della crisi è annotata la spunta di una vera e propria votazione tra i falchi favorevoli all'attacco e le colombe più propense al solo blocco navale. Tra i primi si leggono i nomi di Bundy e di McCone, e di tutti i presenti in uniforme. Tra i secondi McNamara, il Segretario di Stato Dean Rusk, lo speechwriter del presidente Ted Sorensen. Il sottosegretario alla Difesa Paul Nitze, inizialmente inserito nella colonna delle colombe con un punto interrogativo, è spostato in quella dei falchi. In tutto undici voti per l'embargo, e sette per l'attacco.

Il giorno dopo anche Bobby, inizialmente favorevole, si schiera contro l'opzione del bombardamento a sorpresa, inaccettabile «con tutti i ricordi di Pearl Harbour: per centosettantacinque anni, non siamo stati quel genere di Paese». Interpellato, si schiera per la linea prudente anche l'ex presidente Eisenhower. La prudenza pare dettata da una questione morale, ma la ragione che affiora è più elementare: la doverosa paura dell'Armageddon. Un anno addietro Kennedy aveva invitato la gente ad installare rifugi antiatomici prefabbricati nel giardino di casa, promettendo buone probabilità di sopravvivenza nella malaugurata ipotesi di scoppio di una guerra che «noi non vogliamo, ma non dipende solo da noi». Di lì a tre settimane, per tutta risposta, i sovietici avevano fatto esplodere la “Bomba Zar” sopra l'isola di Novaya Zemlya, a Nord del Circolo Polare Artico, esibendo trionfalmente al mondo la propria disponibilità di un ordigno nucleare di potenza tripla rispetto a quella sperimentata dagli americani sette anni prima con l’annientamento dell’atollo di Bikini - il famoso test Castle Bravo che a sua volta aveva decretato il passaggio alla bomba a fusione, mille volte superiore a quella degli ordigni a fissione sganciati sul Giappone nel 1945.
Quelle detonazioni avevano spazzato via ogni residua illusione di una guerra atomica con esito diverso dalla “fine del mondo”. Domenica 22 ottobre, muovendo un passo verso l'orlo del baratro, Kennedy decide di aprire una trattativa, chiedendo il ritiro dei missili già schierati e inviando la Seconda Flotta da Norfolk, in Virginia, a bloccare la strada alle otto navi russe che erano già in viaggio attraverso l'Atlantico – territorio nella Nato – cariche di altre centinaia di testate. Ma prima vuole strappare ai sovietici il vantaggio tattico di svelare all'America e al mondo la presenza di quei missili a un tiro di schioppo da Miami. Alle sette di sera di lunedì 22 ottobre, tutti i programmi televisivi vengono interrotti dall'immagine del presidente seduto alla scrivania, che annuncia l'acceduto e proclama il blocco navale: “Nessuno è in grado di prevedere esattamente il corso degli eventi o quali saranno i costi o le perdite... Ma il pericolo più grande di tutti sarebbe stato non fare niente”. Fiato sospeso per 48 ore, durante le quali il mondo si prepara al peggio.


Oggi sappiamo che nemmeno Kruscev desiderava andare fino in fondo. Gli unici veri oltranzisti erano Castro e Guevara, che spinsero sempre per la linea dura a costo di immolare mezzo emisfero.
Mercoledì sera il primo telegramma di Kruscev: ogni interferenza contro le navi sovietiche in rotta verso Cuba verrà considerata come un «atto di pirateria» ed una dichiarazione di guerra. «Quella sera andammo a casa con in tasca i tesserini per accedere ai rifugi segreti antiatomici, convinti che quella sarebbe stata l'ultima notte del mondo come lo avevamo conosciuto» avrebbe raccontato molti anni dopo Pierre Salinger, il portavoce di JFK.
Sabato 27 ottobre la riunione mattutina alla Casa Bianca venne interrotta da un lancio della Associate Press: «Mosca - il Premier Kruscev ha annunciato al presidente Kennedy che ritirerà le armi offensive da Cuba se gli Stati Uniti ritireranno i loro missili dalla Turchia». Fine del bluff. Per vent'anni la versione ufficiale fu che Kennedy rifiutò l'offerta e contropropose uno scambio tra il ritiro dei missili da parte dei russi in cambio della promessa, da parte degli Usa, di non tentare mai più di invadere Cuba; e che Kruscev, di fronte all'ultimatum “prendere o lasciare” pena l'attacco entro 24 ore, cedette a quelle condizioni. Ma nel 1982, in occasione del ventesimo anniversario, McNamara, Bundy ed altri protagonisti di quei giorni rivelarono in un articolo su Time che in realtà l'accordo si era retto su una seconda contropartita segreta, il ritiro degli Jupiter della Nato dalla Turchia, in silenzio e a distanza di sei mesi per non dare nell'occhio. Kruscev aveva ottenuto di ritirarsi alle sue condizioni, ma a patto di non poterlo rivendicare pubblicamente.
Tutti i documenti emersi nel corso degli anni confermano che Fidel seppe dell'accordo a cose fatte, e visse con rabbia e frustrazione quella che il resto del mondo accolse come una scampata catastrofe. Una settimana dopo Mikoyan, il vice di Kruscev, arrivò a Cuba per far loro ingoiare il rospo. Il Che dichiarò di parlare a nome di Castro quando gli sbatté in faccia l'accusa di averli vilmente traditi. «Prendiamo atto che voi siete pronti a morire nobilmente» gli rispose Mikoyan, «ma morire nobilmente non è pratico».
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