lunedì 27 agosto 2012

IL QUARTO STATO


Piove a dirotto su Tampa, e quello che avrebbe dovuto essere il giorno della inaugurazione della convention nazionale repubblicana è invece un giorno di apprensione in attesa di apprendere se davvero quella che per ora è solo una tempesta tropicale degenererà in poche ore in un uragano di quelli tosti.
In Florida succede spesso, con l'arrivo del settembre. Cosa ha spinto il Partito Repubblicano ad organizzare proprio lì la convention? Semplice: la Florida è il vero campo di battaglia di ogni elezione presidenziale. Non è lo stato che assegna il maggior numero di voti elettorali, ma è di gran lunga quello che ne assegna di più tra gli stati in bilico, quelli che votano in modo oscillante e quindi entrambi i candidati possono ragionevolmente sperare di conquistare. Lo stato più popoloso (il numero di voti elettorali è stabilito in proporzione alla dimensione demografica) è la California, che però si dà per scontato vada al candidato Democratico così come il terzo, New York; altrettanto vale per il secondo in classifica, il Texas, che è aprioristicamente appannaggio dei Repubblicani. La Florida, che è il quarto Stato più popoloso dell'Unione, rappresenta quindi il boccone più lauto fra quelli realmente in gioco. 
Solo nella zona di Tampa risiedono tanti elettori quanto nell'intero Colorado, o in Arizona. Quella di Palm Beach da sola conta più o meno tanti elettori quanto il Nevada. E, fatto decisivo, tutti questi elettori non votano in modo stabile. O meglio: non quelli della Florida centrale. A Nord - nelle zone limitrofe all'Alabama e alla Georgia - risiede un elettorato classicamente "sudista", quindi conservatore; a Sud - soprattutto a SudEst, attorno a Miami - l'alta concentrazione di pensionati newyorkesi e di immigrati latinoamericani determina una netta prevalenza di voto democratico. Ma al centro, nella fascia che va da Tampa (appunto...) a Daytona, che rappresenta circa il 45% dell'elettorato del Sunshine State, il voto oscilla, il che fa della Florida un gigantesco ago della bilancia. Nelle ultime cinque elezioni presidenziali, la Florida è stata conquistata due volte dal candidato repubblicano, due volte da quello democratico e una, nel 2000, è stata assegnata al repubblicano (George W. Bush) dopo cause legali e sofferti riconteggi, ma comunque per una differenza tanto esigua do consentire di considerare quel voto una sorta di pareggio. Ma non fu un caso del tutto eccezionale: negli ultimi vent'anni, la partita presidenziale in Florida è stata vinta o persa sempre con un margine risicatissimo. Quattro anni fa fu vincando in Florida che Obama divenne pesidente: quest'anno i sondaggi confermano che la partita, come sempre, è aperta.
I repubblicani ci sperano, anche perchè non hanno scelta. Curiosamente nella Storia degli Stati Uniti non sì è mai avuto un candidato presidente e nemmeno un candidato vicepresidente proveniente dalla Florida. Eppure, vincere lì è vitale: e lo è in particolar modo per i Repubblicani che non possono contare su una scorta di voti elettorali quale quella che ai Democratici deriva dall'abbinata California + New York. Di fatto dai tempi di Calvin Coolidge, negli anni Venti del secolo scorso, nessun repubblicano è divenuto presidente senza vincere in Florida. 
A tutto questo, come se non bastasse, si aggiunge la composizione strategica dei gruppi etnici e sociali che compongono l'elettorato della Florida. La comunità ebraica, a esempio, lì è particolarmente numerosa la sua concentrazione in quello Stato è una delle ragioni per cui i sette milioni di ebrei americani, pur rappresentando solo il 2,5% della popolazione nazionale, sono uno dei gruppi chiave per aggiudicarsi la Casa Bianca. E quest'anno i repubblicani puntano moltissimo su di esso - e quindi, a maggior ragione, sulla Florida. L'elettorato ebraico-americano in termini nazionali nel 2008 votò all’82% per Obama (nel 2004 aveva votato per Kerry al 77%); ma la "relazione complicata" che in questi anni la Casa Bianca ha intrattenuto con il governo israeliano rimette tutto in discussione.
Poi ovviamente ci sono i latinoamericani: in termini generali una colonna portante della Obama Coalition, drammaticamente fuori dalla portata del Grand Old Party sempre più sbilanciato sulla linea anti-immigrati; ma in Florida sono un gruppo piuttosto eccentrico perché composto in gran parte da cubani (esuli, si diceva un tempo; oggi più che altro figli o nipoti di) ed in secondo luogo da portoricani. A differenza dei messicani (che a livello nazionale rappresentano la stragrande maggioranza dei latinos) cubani e portoricani tendono a ad essere un po' meno sensibili ai problemi dell'immigrazione, i primi perché più interessati alle questioni di "sicurezza nazionale" (non a caso la superstar cubanoamericana del momento, Marco Rubio, è un repubblicano che studia da esperto di politica estera in salsa neoconservatrice), i secondi perché tutti cittadini americani dalla nascita.
Infine gli anziani: la Florida, con il suo clima subtropicale, è da decenni la casa di riposo d'America, la meta prediletta dei pensionati che accorrono da tutto il continente a curarsi i reumi con le sabbiature e ad ammazzare il tempo con i svaghi balneari e non. Sono circa un quinto dei residenti dello Stato. Quest'anno la scommessa dei repubblicani è riuscire a non metterli in fuga con i piani di tagli al sistema di assistenza sanitaria statale loro dedicato, Medicare, teorizzato dal candidato vicepresidente Paul Ryan. Per ora i sondaggi non rilevano traccia di questo rigetto, ma la vera partita è appena cominciata.

venerdì 24 agosto 2012

OBAMA E IL GROSSO GUAIO DI "GOVERNMENT MOTORS"


 «Osama Bin Laden è morto e la General Motors è viva»: il vicepresidente Joe Biden ama usare questo scherzoso slogan nei suoi comizi per la rielezione di Barack Obama. Il salvataggio dal fallimento dei due giganti dell’industria automobilistica americana, General Motors e Chrysler (il terzo, Ford, preferì arrangiarsi senza sussidi e c’è riuscito) è infatti una delle più popolari “cose fatte” che il 44esimo presidente possa rivendicare di fronte agli elettori.
Presto però Biden potrebbe vedersi costretto a cambiare slogan. Se infatti per Chrysler (”salvata” dall’amministrazione Obama rilevandone solo l’8% delle azioni, mentre il 20% venne acquisito dalla Fiat di Marchionne) le cose vanno effettivamente per il meglio, di tutt’altro tenore sono le ultime notizie su General Motors, per il cui “salvataggio” l’intervento statale era stato ben più pesante.

Nel 2009, quando la General Motors presentò istanza di fallimento, il governo ne rilevò la maggioranza assoluta delle quote, spendendo quasi cinquanta miliardi di dollari. Da allora la GM è divenuta una vera e propria industria parastatale, guadagnandosi presso i detrattori dell’operazione il soprannome di “Government Motors”. Si disse che sarebbe stato solo un intervento straordinario temporaneo, ma ovviamente le cose non sono tanto semplici. Il governo federale è ancora azionista per il 26%: per dismettere l’intera sua partecipazione rientrando del fiume di dollari a suo tempo elargito dovrebbe vendere le azioni a 53 dollari l’una, ma oggi ne valgono sì e no 20 per cui vendere ora equivarrebbe a consolidare una perdita di circa 25 miliardi di dollari - soldi dei contribuenti. Al contempo, le vendite vanno male e i bilanci dell’azienda sono pericolosamente traballanti.
Le difficoltà maggiori General Motors le sta incontrando non negli Stati Uniti - dove pure il suo peso si è molto ridimensionato: vendendo a prezzi molto bassi riesce a mantenere circa il 20% del mercato dell’auto, mentre mezzo secolo fa superava il 50% - bensì in Europa, dove la GM ha investito tanto per poi ricavare risultati infimi per via della crisi. All’inizio dell’estate la casa di Detroit ha segnato un calo degli utili netti di ben il 40% nel secondo trimestre, e per settembre non ci aspetta niente di meglio. General Motors intanto ha scialato miliardi nel vano tentativo di soppiantare in Europa il marchio Opel con il suo principale, Chevrolet: il manager che ha speso 559 milioni di dollari per piazzare il logo Chevrolet sulla maglia dei giocatori del Manchester United è stato recentemente defenestrato. Un altro tasto dolente è quello delle auto ecologiche, fortemente spinto dal governo per ovvie ragioni politiche. Obama aveva promesso un milione di auto elettriche sulle strade d’America entro il 2015, ma sarà dura fin tanto che la Chevy Volt vende appena 10mila esemplari all’anno.
Di questo passo, “Government Motors” potrebbe presto vedersi costretta a portare nuovamente i libri in tribunale: il che significa che anche se Obama conquisterà la rielezione, potrebbe poi trovarsi per le mani la patata bollente di un secondo “bailout” per GM. Potrebbe permetterselo?
Uscito su L'Opinione

lunedì 20 agosto 2012

"VAI A CASA, BARACK": NEWSWEEK SCARICA OBAMA?

Newsweek non è più il settimanale influente ed autorevole che fu: la fusione con il Daily Beast lo ha privato del suo ruolo e del suo peso. Addirittura pare ormai certo che presto smetterà di essere stampato su carta, divenendo definitivamente una propaggine del sito web diretto da Tina Brown. Ciò nondimeno, fa un certo effetto vederlo uscire, ad appena un paio di settimane dalla convention di Charlotte che dovrà consacrare la ricandidatura di Barack Obama per altri quattro anni alla Casa Bianca, con una copertina che invita espressamente il presidente a togliersi di mezzo. "Hit the road", vattene a casa, lo invita senza tante cerimonie il titolo che campeggia sull'ultima cover del settimanale; e di seguito il sottotitolo "Perché ci serve un nuovo presidente".

Fa un certo effetto, perché quattro anni fa Newsweek fu una delle testate più appassionatamente pro-Obama (i neoconservatori del Weekly Standard la soprannominarono sarcasticamente ObamaWeek); le copertine su di lui allora si sprecavano, ma erano tutte simpatizzanti, a volte con venature di agiografia.
Certo, quello era il Newsweek di un tempo, prima dell'era Tina Brown - Daily Beast. Ma in realtà anche il nuovo corso aveva mantenuto la tendenza filo-Obama. Basti pensare alla copertina con la quale appena otto mesi fa, a gennaio, Newsweek aprì l'0anno elettorale, usando come coverstory un pezzo dell'opinionista filogovernativo Andrew Sullivan titolato "Perché i critici di Obama sono così stupidi?".
Qualcosa è cambiato, a quanto pare. La nuova coverstory è un lungo pezzo firmato da Niall Ferguson, lo storico inglese che insegna negli ad Harvard, noto al grande pubblico per le sue trasmissioni su History Channel, specializzato in studi sulla moderna civiltà occidentale,, nel quale si spiega che se Paul Ryan fa tanta paura al presidente è perché quest'ultimo ha tradito tutte le sue promesse, e il piano di Ryan e di Romney "è la nostra unica speranza": 
Nella finanziaria per l'anno fiscale 2010 - la prima che ha presentato - il presidente aveva previsto una crescita del 3,2 per cento nel 2010, del 4,0 per cento nel 2011, del 4,6 per cento nel 2012. I numeri effettivi sono stati del 2,4 per cento nel 2010 e dell'1,8 per cento nel 2011; pochi economisti ora si aspettano che quest'anno potrà risultare consistentemente sopra il 2,3 per cento. La disoccupazione avrebbe dovuto essere del 6 per cento, a quest'epoca. Quella di quest'anno è stata invece in media dell'8,2 per cento finora. Nel frattempo il reddito reale medio familiare annuo è sceso di oltre il 5 per cento dal giugno 2009. Quasi 110 milioni di persone hanno ricevuto un sussidio sociale nel 2011, per lo più Medicaid o buoni pasto. Benvenuti nell'America di Obama: dove quasi la metà della popolazione non risulta vere un reddito imponibile - quasi esattamente la stessa porzione della popolazione che vive in una famiglia in cui almeno un componente riceve un qualche tipo di sussidio o sostegno dallo Stato. Stiamo diventando una nazione fifty-fifty: la metà di noi paga le tasse, l'altra metà riceve i benefici.
Dopo una lunga pars destruens dedicata a descrivere i fallimenti di Obvama sia in politica estera che nelle questioni domestiche, Ferguson si lancia in un appassionato endorsement non tanto di Romney quanto del suo vice Paul Ryan. Non è un vero e proprio endorsement della testata, ma sbattuto in copertina in questo modo suona quasi come se lo fosse.

sabato 18 agosto 2012

L' "OBAMA DELL'ALABAMA" STA CON ROMNEY


Quella dell’ex democratico che interviene alla convention nazionale repubblicana è una antica tradizione: è rimasto storico, ad esempio il discorso che Jeane Kirkpatrick, la madrina dei neoconservatori  – nominata da Reagan nel 1981 ambasciatrice americana all’Onu benché ancora iscritta al partito democratico - tenne nel 1984, alla convention nazionale repubblicana per la rielezione di Reagan. In polemica con le posizioni assunte dal suo partito alla convention di San Francisco, Kirkpatrick prese la parola tra i repubblicani per esecrare la tendenza dei democratici a Blame America First, ad incolpare innanzitutto l’America di tutti i mali del mondo. 
Nella storia più recente c’è il caso di Zel Miller, il senatore democratico della Georgia che alla convention nazionale del 1992 per la candidatura di Bill Clinton alla Casa Bianca aveva avuto l’onore di tenere il discorso inaugurale, il keynote speech, e che 12 anni dopo si esibì come keynote speaker alla convention repubblicana del 2004 per la rielezione di George W. Bush.
Quest’anno il democratico deluso che parlerà pro Romney e contro Obama si chiama Artur Davis: afroamericano, cresciuto da una madre single come Obama, avvocato quarantaquattrenne laureato ad Harvard, è stato un parlamentare democratico per quattro mandati consecutivi, dal 2003 al 2011, eletto nel settimo distretto dell’Alabama, sempre con almeno il 75% dei voti, per due volte addirittura senza rivali. Nel 2008 Davis fu tra i primi supporter di Obama fuori dall’Illinois, fu un co-chair, un dirigente della sua campagna elettorale, e fu fra gli oratori della Convention Nazionale Democratica di Denver che ne consacrarono la fortunata candidatura presidenziale (in perfetto stile Obamiano tenne un discorso autobiografico, ricordando di aver guardato la convention del 1988 sul televisore della camera di un motel perché la sua famiglia era stata sfrattata).
Poi, qualcosa é andato storto. Nel 2010 Davis rinunciò a ricandidarsi al Congresso per tentare invece di divenire il primo governatore nero dell’Alabama. In un’intervista dichiarò che Obama sarebbe stato il suo modello in quella nuova sfida. La sua scelta riscosse il plauso dei media e subito egli venne etichettato come “l’Obama dell’Alabama”. Ma alle primarie democratiche per la candidatura a governatore, nonostante i sondaggi lo dessero in vantaggio, egli fu battuto con un umiliante 37%, e dovette cedere il passo al compagno di partito Ron Sparks, bianco e più di sinistra. Dopo quella disfatta Davis lasciò l’Alabama e si trasferì in Virginia; più che il partito, pareva intenzionato ad abbandonare la politica attiva. E invece in primavera a sorpresa ha annunciato che intende passare all’altro partito; ieri il suo nome è apparso tra quelli degli oratori alla convention di Tampa. Prevedibili gli argomenti del suo intervento: Obama non ha portato il cambiamento promesso, si è dimostrato il solito politicante capace solo di aumentare le tasse, non ha saputo combattere la disoccupazione. Presto si saprà se alla convention democratica un repubblicano deluso avrà un ruolo analogo.
Uscito su L'Opinione

lunedì 13 agosto 2012

BENVENUTO HAMILTON

So che sapete benissimo che nella teogonia dei Padri Fondatori americani Alexander Hamilton è il capostipite dei "federalisti" (cioé dei fautori di un governo federale-centrale forte, a scapito delle autonomie locali e nell'ottica degli interessi mercantili del New England), così come il mio amato Thomas Jefferson - cui, tra le molte altre cose, è intitolato questo umile blog - è il capostipite degli antifederalisti democratico-repubblicani (cioé dei difensori dei diritti dei singoli Stati nell'ottica degli interessi del Sud agrario). I Coppi e Bartali - o l'IPhone e il BlackBerry, se preferite - della storia americana. Roba da intenditori, quali so essere i quattro lettori di questo umile blog jeffersoniano. Ai quali sono pertanto lieto di segnalare che la blogosfera italiana ne annovera ora anche uno hamiltoniano: lo ha lanciato - just in time per il rodeo presidenziale di quest'autunno -  Federico Leoni, vicecaportedattore di SkyTg24 (nonché coautore dell'unica biografia italiana di John McCain - edita, per lo meno).
Benvenuto ad Hamilton, quindi, e i migliori auguri al suo autore. Blog on!

IL FALCO E LA COLOMBA: CHI VORREBBE ROMNEY AGLI ESTERI?

Bene: ora sappiamo che se Mitt Romney dovesse essere eletto presidente, il suo vice sarà il giovane "falco del budget" Paul Ryan. Ma per quanto riguarda la politica estera, la sua amministrazione si affiderebbe a un "falco" o a una "colomba?" Chi ingaggerebbe Romney come Segretario di Stato (cioé ministro degli Esteri)?

Josh Rogin di Foreign Policy ha tentato di scoprirlo con un'inchiesta condotta fra i consulenti del Team Romney (tutti protetti dall'anonimato) per tentare di carpire le intenzioni al riguardo del candidato repubblicano alla Casa Bianca. Il più probabile Segratario di Stato di una ipotetica amministrazione Romney sarebbe, secondo queste indiscrezioni, Joe Lieberman, il senatore indipendente del Connecticut che rappresenta una sorta di ala sinistra del movimento neoconservatore.
Lieberman, che a gennaio andrà in pensione dopo ben 24 anni di carriera al senato, è stato per una vita un esponente di primo piano del Partito Democratico, per il quale era stato addirittura candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti nel 2000 in ticket con Al Gore; dopodiché alle primarie democratiche del 2004 si era presentato alle primarie per la candidatura a presidente, con esiti molto modesti. Nel 2006 venne sconfitto alle primarie per la ricandidatura nel suo seggio senatoriale del Connecticut, causa il boicottaggio da parte dei dirigenti del Partito Democratico proprio per via delle sue idee troppo “da falco” sulla politica estera. Tra i frondisti che lo appoggiarono in quella sfida vi fu anche il giovane collega Barack Obama. Lieberman a quel punto si candidò allora fuori dai due grandi partiti, "solo contro tutti", e venne trionfalmente rieletto come unico senatore indipendente (battendo il miliardario pacifista Ned Lamont, che il partito gli aveva preferito).
Lieberman è sempre stato fautore di una politica estera decisamente interventista, volta a privilegiare la promozione della democrazia rispetto al queto vivere commerciale e alla realpolitik. Negli anni Novanta fu tra i principali fautori del regime change in Iraq, ed ora segue la stessa linea sull'Iran. Esponente di spicco della comunità ebraica statunitense, sostiene da sempre una politica estera radicalmente filoisraeliana (se nominato Segretario di Stato, sarebbe il secondo uomo politico ebreo a rivestire questa carica: ad oggi l'unico caso è quello di Henry Kissinger).
Un dettaglio che può dirla lunga sul curriculum di Lieberman, è rappresentato dal disegno di legge che egli nel 2005 firmò a quattro mani con il collega repubblicano John McCain (il futuro candidato alla presidenza battuto da Obama nel 2008) con la sofisticatissima denominazione "A.D.V.A.N.C.E. Democracy Act". “Advance Democracy” significa “promuovere la democrazia”, ma la prima parola è in realtà un acronimo che sta per “Advance Democratic Values, Address Nondemocratic Countries, and Enhance”, per cui la versione estesa del barocco titolo escogitato è “Promuovere i Valori Democratici, Affrontare i Paesi Non-democratici ed Accrescere la Democrazia”. 

venerdì 10 agosto 2012

I CONSERVATORI VOGLIONO PAUL RYAN COME VICE

Nello scegliersi un candidato alla vicepresidenza, Mitt Romney non sta solo selezionando una persona: sta anche - o soprattutto - tentando di concludere un negoziato con l'ala conservatrice del Partito Repubblicano, che durante le primarie ha lungamente contrastato la sua candidatura e sulla quale egli sa bene di essere riuscito ad avere la meglio solo perche' essa non e' riuscita a compattarsi su una candidatura alternativa da contrapporgli.

Ebbene: negli ultimi giorni l'ala conservatrice del partito ha reso pubblica la propria preferenza, in modo alquanto esplicito. Il Wall Street Journal, di gran lunga il principale quotidiano conservatore degli Stati Uniti, è uscito con un editoriale (non firmato, quindi ancora più autorevole) dal titolo: "Perché non Paul Ryan?", nel quale si depreca la tendenza dell'establishment ad osteggiare come "troppo rischiosa" la candidatura vicepresidenziale del carismatico 42enne deputato del Wisconsin, presidente della Commissione Bilancio della Camera e paladino dei tagli alla spesa pubblica. Il rischio che pare spaventare tanto "i piscia-a-letto di Washington", si legge nell'editoriale del WSJ, è che Ryan sia uno troppo radicale, portatore di idee troppo estreme (da anni propone una sorta di privatizzazione di parte del welfare). In realtà, prosegue l'editoriale, proprio questo è il suo grande pregio: Ryan è uno che crede veramente nelle sue idee, e che pone con genuina convinzione il problema di ridefinire il ruolo dello Stato prima che sia troppo tardi, prima che ci si riduca come in Grecia; e per di più sa farlo col il sorriso, un po' come faceva Reagan.
 Per caricarlo del maggior calibro possibile, l'editoriale del WSJ è stato seguito ieri da un pezzo di rincalzo firmato da intitolato"The Ryan Express" nel quale si spiega quanto e quale entusiasmo stia montando nel mondo conservatore attorno all'ipotesi di un ticket Romney-Ryan, accompagnato da un altro in cui si racconta di una spaccatura dei repubblicani tra il partito degli "audaci", ovviamente schierati per l'opzione Ryan, e il partito dei "prudenti", che, per non prestare il fianco a polemiche da parte del Team obama, preferirebbero una scelta più asettica come l'ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty o il senatore dell'Ohio Rob Portman.
 La presa di posizione del WSJ è tutt'altro che isolata, anzi: : anche il settimanale Weekly Standard, testata di riferimento del mondo neoconservatore, e' uscito con un editoriale che sponsorizza il ticket Romney-Ryan; e sempre ieri Rich Lowry, direttore della prestigiosa rivista conservatrice National Review, ha firmato - non sulla sua NR ma sul quotidiano conservatore New York Post e sul sito The Politico - un corsivo nel quale invita i repubblicani a "non avere paura di Ryan".
 Intanto ieri pomeriggio Ari Fleischer, gia' addetto stampa della Casa Bianca durante la prima presidenza di George W. Bush, ha condotto un sommario sondaggio tra i suoi oltre 56mila follower su Twitter. Questo l'esito, in ordine crescente dal meno al più apprezzato:

mercoledì 1 agosto 2012

ADDIO GORE VIDAL, DISSIDENTE DI SUCCESSO NELLA "DITTATURA AMERICANA"

Lo scrittore, polemista e sceneggiatore Gore Vidal è morto ieri sera, per complicazioni da una polmonite, alle 18,45 ora locale nella sua casa di Hollywood Hills, a Los Angeles. Aveva 86 anni e per buona parte della sua vita aveva abitato in Italia, a Ravello. Nato a West Point nel 1925 Eugene Luther Vidal (il nome d'arte "Gore" lo avrebbe preso dal cognome del nonno materno Thomas Gore, senatore democratico dell'Oklahoma), ad appena 22 anni, nell'immediato secondo dopoguerra, divenne celebre con il romanzo "The City and the Pillar" (in Italia "La Statua di Sale"), che scandalizzò l'America per il modo esplicito con il quale l'autore, omosessuale gli stesso, trattò il tema dell'omosessualità. Da lì in poi, Gore Vidal è stato un anticonformista di professione - un anticonformista "pesante", radical, di quelli che altrove non avrebbero fatto carriera e che invece in un Paese libero come quello che lui ha passato la vita a criticare non di rado riescono ad avere enorme fortuna.

A lui è certamente accaduto. Dopo lo scandalo di "La Statua di Sale" fece carriera non solo come romanziere ma anche come autore di opere teatrali e come sceneggiatore: per la televisione scrisse nel 1955 lo sceneggiato La Morte di Billy the Kid, che di lì a tre anni venne trasformato nel film con Paul Newman Furia selvaggiae che vent'anni più tardi sarebbe stato utilizzato come base per La vera storia di Billy the Kidcon Val Kilmer. Sempre negli anni Cinquanta Vidal venne anche ingaggiato dalla Metro Goldwin Mayer per lavorare alla sceneggiatura del remake del kolossal Ben Hur, benché non accreditato (l'attore protagonista Charlton Eston, noto conservatore, avrebbe tentato di sminuire il suo contributo). Nel 1960, l'anno dell'elezione alla Casa Bianca di John F. Kennedy, si candidò al Congresso per il partito Democratico nello Stato di New York, in un collegio nel quale tradizionalmente vinceva sempre il candidato Repubblicano (Time la definì una "candidatura kamikaze"): non fu eletto, ma prese più voti di quanti un Democratico fosse mai riuscito ad ottenere in quel distretto. Si trasferì quindi in italia, a Roma, con il compagno Howard Austen, e lì scrisse il romanzo sotricoGiuliano (1964), sulla vita dell'imperatore imperatore romano "Apostata" del quarto secolo nipote di Costantino. Dopodiché inaugurò, con il saggio Washington D.C. (1967), la ambiziosa serie Narratives of the Empire, la sua versione della storia degli Stati Uniti dalla fondazione agli anni alla Guerra Fredda (i volumi successivi furono BurrLincolnIl Candidato, Impero,Hollywood e L'età dell'oro, usciti nell'arco di oltre trent'anni).La sua chiave di lettura della storia americana era, per usare un termine nostrano, anti-imperialista: una critica del graduale abbandono della politica estera isolazionista delle origini e del passaggio ad una visione espansionista e alla conquista di una leadership globale.
Nel Sessantotto Vidal curò per la televisione delle cronache della famosa Convention Nazionale Democratica di Chicago, e in quell'occasione si fece notare per aver definito il fondatore della National Review William F. Buckley, il leader degli intellettuali conservatori americani, un “criptonazista”. In quell'anno egli uscì con la commedia Myra Breckinridge,satira di costume con protagonista un transessuale che, trasformatosi in donna, si spaccia per la vedova di sé stesso. Nel 1975 avrebbe realizzato un sequel, Myron, nel quale, per aggirare la censura sul turpiloquio, giocò a sostituire i nomi dei genitali dei protagonisti con quelli dei giudici della Corte Suprema. Negli anni Settanta, oltre che altri saggi e romanzi, scrisse anche la sceneggiatura del film "Io, Caligola" di Tinto Brass, dal quale prese però poi le distanze (lo definì "uno dei film più brutti" che avesse mai visto).
Nel necrologio uscito oggi sul New York Times si osserva che Vidal "trasse enorme piacere nell'essere un personaggio pubblico, forse più di qualunque altro scrittore americano fatta eccezione per Norman Mailer o Truman Capote". Piacere - e privilegio - che l'America non gli ha certo negato. Contrariamente a molti intellettuali radical, Vidal non ha mai snobbato la televisione, nella quale ha spesso preseziato non solo come sceneggiatore ma anche come opinionista e ospite di dibattiti. Al cinema, poi, non ha mai disdegnato di interpretare se stesso, quarant'anni fa in Roma di Fellini così come vent'anni fa in Bob Roberts di Tim Robbins. Non disdegnò nemmeno la politica: una volta dichiarò di aver "sempre voluto essere un politico ma di essere nato scrittore", e nonostante il fallimento del 1960 fece un nuovo tentativo elettorale nel 1982, in piena era Reagan, candidandosi alle primarie del partito Democratico per uno dei due seggi californiani al Senato: arrivò secondo tra nove candidati (vinse Jerry Brown, che era governatore del Golden state e lo è nuovamente ai nostri giorni).
 Il tardo Vidal, quello dell'ultimo decennio, è stato probabilmente il meno brillante. Lo stesso Christofer Hitchens, che a lungo fu un suo delfino, poco prima di morire notò che egli "avrebbe potuto essere l'Oscar Wilde del suo tempo", ma finì per peredere la bussola. Nell'America post-Undici Settembre Vidal è divenuto una voce stonata più che scomoda, pronto a lanciarsi in deliri dietrologici di bassa lega, a dichiarare che il presidente Bush, "l'uomo più stupido d'America", era al contempo abbastanza perfido da essere "probabilmente" coinvolto negli attentati al World Trade Center per poter invadere l'Afghanistan, così come del resto era probabilmente stato Franklin Delano Roosevelt sessant'anni prima ad "indurre i giapponesi ad attaccare Pearl Harbor" per poter entrare in guerra; e poi di essersi pentito di aver votato per Obama nonostante l'alternativa fosse per lui apocalittica (ha definito John McCain "il pazzo dell'Arizona" sollevando torbide illazioni sulla autenticità del suo passato di eroe di guerra, e non ha esitato ad etichettare come "fascisti" i repubblicani), perché il quarantaquattresimo presidente non avrebbe saputo porre fine a quella che egli considera una deriva militarista e antidemocratica del suo Paese, del quale ormain parlava come se si trattasse dell'Egitto o del Pakistan ("presto avremo in America una dittatura militare", disse in un'intervista al Times di Londra, "perché neient'altro ormai può tenere assieme questo Paese"). "Si definì talvolta un populista", si legge oggi sul NYT, "ma non lo fu mai in modo convincente. Sia per nascita che per carattere, egli fu piuttosto un aristocratico".