venerdì 27 luglio 2012

@BARACKOBAMA E GLI ALTRI



Merita approfondimento lo studio dal titolo “Twiplomacy” appena pubblicato  dalla dalla società di pubbliche relazioni Burson-Marsteller, condotto sugli account Twitter di tutti i presidenti, sovrani e primi ministri che risultano averne uno: complessivamente 264 leader di di 125 Paesi. Barack Obama con i suoi 17,8 milioni di followers risulta avere l'account Twitter più seguito al mondo, ma solo nella ideale categoria dei capi di Stato e di governo; in assoluto è invece il quinto al mondo, dopo le popostar Lady Gaga (che avendo superato i 27 milioni di followers è l'account twitter più seguito al mondo in assoluto) , Justin BieberKaty Perry e Rihanna.
Tra i "colleghi" Obama primeggia in più modi: fu il primo capo di Stato ad iscriversi a Twitter (o meglio: iscrittosi il 5 marzo 2007, evidentemente in vista della sua candidatura alle primarie presidenziali, fu poi il primo politico iscritto a Twitter a divenire capo di Stato; e per la verità durante i primi 100 giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca il suo account rimase pressoché muto, per poi riattivarsi solo una volta attivato quello parallelo, più istituzionale, della Casa Bianca); e vanta anche il tweet più ritwittato della storia (quasi 62mila volte): quello con il quale affermò che "Le coppie dello stesso sesso dovrebbero potersi sposare".
Ciò in cui Obama non risulta primeggiare affatto è la propensione ad usare Twitter per relazionarsi, dato che solo un misero 1% dei suoi tweet è costutito da risposte ad altri, il 99% sono invece dispacci unilaterali emessi senza interloquire.
Intendiamoci: dei quasi cinquemila messaggi ad oggi pubblicati sull'account Twitter di Obama, quelli siglati con le sue iniziali BO, che per una sorta di protocollo autodecretato sono gli unici riferibili proprio a lui personalmente e non a qualche anonimo ghosttwitter del suo staff, sono in tutto appena otto (di cui uno per fare gli auguri di San Valentino a sua moglie). Del resto nel novembre del 2009, quando il suo account sul social network dei cinguetii esisteva già da oltre due anni ed era già uno dei più seguiti al mondo, Obama rispondendo ad una domanda ammise candidamente di non aver mai usato Twitter in vita sua. Il che è del tutto normale: lo stesso studio “Twiplomacy” segnala che sui 264 account Twitter esaminati, solo una trentina risultano essere realmente utilizzati, almeno in parte, dai rispettivi titolari.
Curiosamente, lo studio ha evidenziato che tra i capi di Stato sono molto più interattivi i dittatori: il rwuandese Paul Kagame, ad esempio, risponde agli interlocutori nel 90% dei casi; e anche il venezuelano Hugo Chavez, il cui account @chavezcandanga è il secondo più seguito al mondo dopo quello di Obama tra i capi di Stato (ma con grande distacco: ha poco più di tre milioni di followers), risponde a qualcuno nel 38% dei suoi messaggi.
@MittRomney? Non brilla. Lo studio “Twiplomacy” non lo ha considerato perché non è un capo di Stato ma solo un aspirante tale; esiste però una analisi comparata dell'utilizzo di Twitter da parte dello sfidante rispetto al presidente, uscita alla fine di maggio sul suto della rivista Forbes. Lì si notava come Obama (o chi per lui), anche se magari non è solito rispondere ad altri, è però se non altro piuttosto incline a retwittare tweet di altri, e pubblica messaggi accuratamente formulati con linguaggio non troppo formale, anche se sempre con molta professionalità. Romney (o meglio il Team Romney), invece, pareva utilizzare questo social media in modo molto più rozzo e disordinato, quasi amatoriale, ma senza saper tenere il tono confidenziale consono a questo mezzo, e co interattività prossima allo zero. Da allora non si può dire che sia molto migliorato; e per di più, addentrandosi nella campagna elettorale ha sviluppato una tendenza un po' patetica a twittare rivolgendosi direttamente al presidente, senza ottenere risposta e quindi facendo un po' la figura di uno che stando in strada strilla contro le finestre chiuse di un vicino di casa con il quale tenta invano di attaccare briga. Nell'ultimo mese, un terzo dei Tweet di Romney sono direttamente rivolti, con mezione espressa, contro l'indifferente @BarackObama. Gli servirà?

giovedì 26 luglio 2012

OBAMA-ROMNEY, IL PROGRAMMA DEI DIBATTITI

Ci siamo quasi. Un comunicato diramato ieri sera dalla Commissione sui Dibattiti Presidenziali (CPD) ha reso noto il programma dei tre faccia a faccia televisivi nei quali Barack Obama e Mitt Romney si misureranno il prossimo ottobre.

La Commissione, istituita nel 1988 (fino ad allora i dibattiti presidenziali erano stati gestiti da una associazione neutrale, la Lega delle Elettrici Donne), non è una istituzione statale bensì un organismo istituito dai due grandi partiti politici, e formato da loro ex dirigenti (attualmente a capo della commissione siedono il repubblicano Frank Fahrenkopf e il democratico Paul Kirk). In quella sede i vertici dei due partiti ogni quattro anni negoziano date, luoghi, modalità e argomenti dei tre dibatti fra i due candidati presidenti e del dibattito fra i candidati vicepresidenti. Non si tratta quindi di una materia regolamentata dalla legge, né sottoposta ad alcuna autorità statale: semplicemente, il Partito Repubblicano e il Partito Democratico si mettono d'accordo.
Accordo che quest0anno prevede un programma quasi identico a quello del 2008, stando al quale i dibattiti saranno questi:
Tema: la politica interna (riusciranno ad evitare una domanda sul controllo sulla vendita delle armi da fuoco?). Format: dibattito con moderatore, suddiviso in sei round di circa un quarto d'ora. I candidati staranno in piedi con davanti un leggio. All'inizio di ogni round il moderatore farà una domanda rivolta ad entrambi i candidati, ciascuno dei quali avrà due minuti per rispondere, poi dieci minuti di dibattito e quindi una nuova domanda.

Tema: sia la politica interna che quella estera. Format: lo stesso del primo dibattito presidenziale, ma in nove round di circa dieci minuti.


Tema: sia la politica interna che quella estera. Format: townhall meeting, dibattito inframezzato ed animato da domande poste direttamente da persone del pubblico, appositamente selezionate dalla Gallup per rappresentare gli elettori “indecisi”. Per evidenti ragioni si tratta del più vivace dei tre dibattiti; quattro anni fa fu il più visto in televisione, da oltre 62 milioni di spettatori.

Tema: la politica estera. Format: lo stesso del primo dibattito, ma con i candidati attavolati.
Ad agosto verranno resi noti i nomi dei moderatori.

mercoledì 25 luglio 2012

"L'AMERICA E' MORTA?" - FRANK RICH CONTRO IL PANICO DECLINISTA

“Dio è morto?” Nell'aprile del 1966 Time uscì con una copertina che scatenò grandi polemiche e sarebbe rimasta celebre: su di un fondale totalmente nero campeggiava, in rosso, questa scritta e nient'altro. Fu la prima volta in 43 anni che l'autorevole settimanale uscì con una cover sulla quale non appariva nessuna illustrazione ma solo una scritta. Il riferimento era ad un lungo pezzo che John T. Elson, il redattore del settimanale addetto alle questioni religiose, aveva elaborato nel corso di quasi un anno, sul tema della crisi dell'idea di Dio nella società contemporanea (il titolo, giocato sulla famosa frase di Nietzsche, fece scandalo; ma era in voga in quegli anni: persino nella cattolica Italia Francesco Guccini aveva già scritto la canzone “Dio è morto”, anche se i Nomadi l'avrebbero incisa solo nel '67).

Questa settimana il New York Magazine è uscito con una copertina che fa il verso a quella mitica di Time di 46 anni fa, solo che stavolta l'interrogativo è: “L'America è morta?”. La storia di copertina è un lungo pezzo di Frank Rich, uno dei più talentuosi ed influenti opinionisti della stampa di sinistra americana. Rich ha tenuto per molti anni una seguitissima rubrica settimanale sul New York Times, e da un paio d'anni è passato al New York magazine dove ne tiene una mensile. Stavolta la usa per inserirsi sul dibattito sullo scivolamento verso un mondo post-americano e sul tramonto dell'American Dream, che da mesi tiene banco nel dibattito pubblico non senza intersecare la campagna elettorale. Lui stesso lo descrive così:
Se c'è un grido di battaglia che oggigiorno riesce ad unire il nostro popolo tanto diviso, è l'invettiva secondo la quale il nostro Paese è andato all'inferno, e praticamente ogni fase dell'era moderna – forse con l'ecezione della Grande Depressione – è meglio dell'attuale picco negativo quanto ad armonia civile, patriottismo disinteressato e fermento di intraprendenza capitalistica. E' da ormai quattro anni – dal crack del 2008 e dall'ascesa di Barack Obama che lo ha accompagnato – che l'America si trova in pieno panico da declino. I libri di intellettuali, opinionisti e politici che proclamano il nostro imminente collasso sono stati una delle poche industrie solidamente in crescita in tempi difficili.
Rich non ci sta. La sua risposta all'inquietante interrogativo che campeggia sulla copertina della rivista è secca: no (sulla stesa copertina lo si può leggere in un apposito ironico rettangolino giallo). Egli, anzi, accusa “le molte Cassandre decliniste di destra, di sinistra e di centro”, da Pat Buchanan a Timothy Noah passando per Tom Friedman e Fareed Zakaria, di aver perso il senso della misura: “viviamo tempi difficili, ma dopotutto siamo un Paese che è sopravvissuto ad una guerra civile, a due guerre mondiali, alla Grande Depressione, all'Undici Settembre, al pantano del Vietnam e a quello dell'Iraq”.
Rich prende energicamente le distanze da questa ondata di disfattismo apocalittico, per spiegare la quale propone una sua teoria decisamente peculiare. Secondo lui l'America non sta affatto morendo, ma sta cambiando: l'America "di una volta" sta cedendo il passo ad un'America diversa, per via di cambiamenti etnici, sociali e culturali. I cambiamenti creano spesso disagio - specie in un periodo come questo in cui l'economia va male e ci sono molti problemi. Inoltre, secondo Rich, gli animi di molti americani sono ulteriormente turbati dal fatto di avere un presidente come Obama, giovane, di colore e cosmopolita. Obama vinse le elezioni quattro anni fa con lo slogan "il cambiamento in cui puoi credere", ma questo gli si ritorce contro perché, secondo la teoria di Rich, egli si ritrova ad incarnare nell'immaginario collettivo la perdita di vecchie certezze; gli umori pessimisti o nostalgici dei quali è pervasa l'america da lui governata altro non sarebbero, secondo Rich, che paura del cambiamento.
"Per quanto i problemi dell'America possano essere seri" scrive, "il panico declinista e' stato alimentato psicologicamente dall'avvento di Obama"; e l'establishment intellettuale, con tutto questo catastrofismo, non fa che alimentare "la voglia di un grande papa' bianco che riporti indietro i vecchi tempi".

mercoledì 18 luglio 2012

STARBUCKS E NEW YORK: FINE DI UNA STORIA D'AMORE?

La storia d’amore tra Starbucks e New York è in crisi? Se lo chiede Johnatan Knee su Slate, menzionando numerosi sintomi che sembrano confermare l'inizio di un declino che potrebbe avere conseguenze non solo nella Grande Mela.

La storia degli “usi e consumi” a stelle e strisce è costellata di operazioni imprenditoriali che sono nate più a Est ma hanno avuto successo anche grazie alla scelta di "Go West", di traslocare in California. Quella di Starbucks è in un certo senso una storia in senso inverso: nata negli anni Settanta a Seattle (che è una sorta di propaggine nordica del Golden State), reinventata negli anni Ottanta dal manager Howard Schultz che ebbe l’intuizione di puntare sul caffè “di tipo italiano”, la catena di bar più celebre del pianeta è divenuta tale negli anni Novanta, e uno dei passaggi cruciali che ne hanno determinato il successo è stato lo sbarco a New York, che non a caso è la città dalla quale Schultz proveniva.
Il primo Starbucks newyorkese venne aperto nel 1994 sulla Broadway all'angolo con la 87esima strada, in piena Upper West Side (una delle zone più agiate di Manhattan): era all'epoca il locale più grande di tutta la catena, e il successo fu tale che all'inaugurazione fu ingaggiata la security per tenere sotto controllo la folla. L’apertura di quel primo caffè venne annunciata come l’inizio di una operazione che avrebbe portato ad aprirne cento in quattro anni nella sola Grande Mela: un’enormità, se si considera che la rete di Starbucks - che oggi è mondiale e consta di quasi ventimila locali - all’epoca era solo statunitense e ne contava circa trecento in tutto.
La newyorkizzazione di Starbucks non fu solo una banale questione di fare vetrina, di mettersi in bella mostra nella città più trendy del pianeta: fu una evoluzione nella filosofia fondante di quei locali. New York è sinonimo di vita frenetica e stressante, e Schultz aveva ben chiaro che il successo di un bar in quel contesto si giocava sul saper essere un luogo relativamente tranquillo, che offrisse rifugio per una pausa rilassante. E quindi morbide poltrone oltre alle normali sedie, personale cortese, toilette pulite. Starbucks divenne così – non solo a New York – un luogo di ritrovo per giovani, non solo in gruppo ma anche da soli per leggere o scrivere, e questo ne decretò il boom planetario. Poco dopo venne il boom di Internet e Starbucks fu una delle prime catene ad offrire il Wi-Fi gratuito (dapprima, nel 2002, per le prime due ore; poi, dal 2010, illimitatamente, per tener testa alla concorrenza).

"Starbucks non sta cambiando solo le nostre abitudini su cosa manguiare e bere. Sta cambiando anche quelle su dove e quando lavorare e svagarci. Sta cambiando le nostre abutidini su come sprendere soldi e trascorrere il tempo. Ed è solo l'inizio" si leggeva sei anni fa in un reportage su USA Today. E ancora: "nei depliant su abitazioni di alto livello vicino a New York City, non è raro vedere la indicazione "vicino a uno Starbucks" come punto a favore per invogliare gli acquirenti. Uno Starbucks nei paraggi è decisamente un segnale del fatto che quel quartiere è "arrivato".
Qualche anno dopo, tira un'altra aria negli Starbucks di New York. Quella del wi-fi si è rivelata alla lunga una delle scelte più controproducenti: con gli anni i locali di Starbucks sono divenuti luogo di bivacco per studenti o lavoratori freelance particolarmente squattrinati che ne occupavano i tavolini per intere giornate solo per scroccare la connessione a Internet, consumando poco o nulla (si capisce che la Grande Recessione ha contribuito). Un anno fa alcuni locali newyorkesi di Starbucks hanno cominciato a bloccare le prese elettriche, per evitare che i clienti potessero sfruttare il wi-fi per un tempo superiore alla durata della batteria del portatile. Anche le poltrone sono state eliminate in molti locali newyorkesi.


Pochi mesi dopo è scattata sempre a New York la rivolta dei dipendenti contro l’utilizzo a sbafo delle toiletteche è impresa improba tenere pulite da quando la gente aveva preso l’abitudine di usarle come bagni pubblici: in alcuni Starbuck della Grande Mela il personale ha preso l’iniziativa di chiudere a chiave la porta del bagno o di metterci il cartello “riservato al personale” (da Seattle è però ben presto arrivato l’ordine di riaprirli).

Naturalmente si è aggiunto il fattore concorrenza: svariate catene, sia locali che nazionali, hanno imitato la formula che Starbucks aveva lanciato con tanto successo quasi vent’anni fa (o più banalmente hanno cominciato a servire caffè più buono), erodendone la posizione dominante.
Intendiamoci: oggi come oggi Starbucks non si può definire in crisi. I profitti, che negli ultimi tre anni sono stati in calo, hanno ora ricominciato a crescere; Seattle per sopravvivere alla crisi ha chiuso 900 punti vendita che non rendevano abbastanza, ma nel 2011 è risultata la quarta catena di locali pubblici d’America (superata solo da McDonald’s, Wendy’s e Burger King, quindi la numero 1 tra quelle che non servono hamburger). Ma nei suoi locali di New York, che furono alla base del suo boom, è palpabile una atmosfera di declino. Il futuro del suo business è piuttosto altrove, in Cina o in India?

giovedì 12 luglio 2012

SE LA CALIFORNIA FALLISCE - UNA CITTA' ALLA VOLTA

Fino ad un paio di giorni fa cercando su Google qualche notizia su San Bernardino, città della California meridionale, ci si sarebbe imbattuti più che altro nella nota di colore legata allo status di "luogo di nascita del fast food", poiché proprio lì, sul tratto più occidentale della mitica Route 66, i fratelli Dick e Mac McDonald aprirono nel 1940 il primo ristorante di quella che sarebbe diventata la catena di fast-food più grande del mondo (esiste ancora ed è anche un vero e proprio museo).  Da ieri, invece, San Bernardino è nel flusso delle news per un fatto di tutt'altro colore: è infatti ufficialmente la terza municipalità californiana nell'ultimo mese a presentare istanza di fallimento volontario essendo il suo bilancio letalmente intossicato da un deficit di ben 45 milioni di dollari, che oltretutto per alcuni lustri era stato occultato falsificando i conti.

Alla fine di giugno aveva fatto scalpore il fallimento di Stockton, città del nord del Golden State, nata come porto fluviale con la grande "corsa all'oro" della metà del Diciannovesimo secolo e poi divenuta epicentro delle esportazioni dei rinomati prodotti agricoli del Golden State. Anche questa si era eccessivamente indebitata: il deficit era esploso in buona parte con lo scoppio, nel 2007-2008, della "bolla immobiliare", che in California ha avuto un impatto particolarmente violento perchè lì le severe limitazioni all'edificabilità di molti terreni hanno drogato i prezzi degli immobili, portandoli a costare anche sedici volte quelli del Texas. Le entrate del comune di Stockton derivavano principalmente dalla tassazione dei patrimoni immobiliari, e quando buona parte delle case sono state pignorate dalle banche per il mancato pagamento dei mutui l'introito è venuto meno. Ma questo, in realtà, è stato solo il colpo di grazia su di un organismo già dissennatamente minato dall'insostenibile peso di una spesa ostinatamente sprecona, soprattutto per via delle pensioni dei dipendenti pubblici, vera specialità californiana al pari del surf e del cibo macrobiotico.
Queste notizie fanno riflettere. Stockton e San Bernardino non sono delle metropoli ma nemmeno dei paesini di campagna: la prima è una città di quasi 300mila abitanti, la seconda ne ha circa 200mila, entrambe sono capoluogo di contea ("fanno provincia" diremmo in Italia). Pertanto detengono ora il tristissimo primato rappresentato dal fatto di essere, rispettivamente, la più grande in assoluto e la seconda più grande città per dimensioni a dichiarare fallimento nella storia degli Stati Uniti (le municipalita' negli Usa sono ammesse al fallimento dal 1937 e da allora ne sono fallite in tutto 640). Di mezzo c'è stato il caso di una cittadina più piccola, Mammoth Lakes, rinomata località sciistica del Golden State che ha chiesto di essere dichiarata fallita per una questione più peculiare, una causa vinta da un costruttore al quale la città aveva incautamente affidato e poi altrettanto incautamente revocato un importante appalto, il quale ha ottenuto che la città fosse condannata a pagargli un risarcimento di 43 milioni che nelle casse municipali proprio non ci sono. Ci si chiede ora se molte altre città nei guai con il proprio bilancio opteranno per questa drastica soluzione, specialmente lì in California dove l'incapacità di far quadrare i conti pubblici pare ormai endemica.
Tutto ciò ha un evidente riflesso politico, dato che la California è lo Stato più popoloso degli Usa ed è tradizionalmente un feudo del Partito Democratico. Anche nelle elezioni di midterm del novembre 2010, che nel complesso per i Democratici furono catastrofiche (i repubblicani oltre a riconquistare la maggioranza alla Camera nel parlamento federale di Washington si aggiudicarono ben 39 dei 50 governatori, strappandone ai Democratici una dozzina), la California si confermò, assieme a New York, l'ultima grande roccaforte democratica: lì i Repubblicani persero sia la sfida per il più ambito seggio senatoriale, dove la ex supermanager della HP Carly Fiorina non riuscì a scalzare la navigata senatrice democratica Barbara Boxer, sia quella per la poltrona di governatore, occupata sino ad ora dal repubblicano liberal Arnold Schwarzenegger, il quale era stato eletto nel 2003 dopo la destituzione per referendum del suo predecessore democratico proprio a causa dello sfascio dei conti pubblici dello Stato. Gli elettori californiani hanno richiamato in servizio il settantaduenne Jerry Brown, il quale aveva già governato il Golden State subito dopo Ronald Reagan, dal 1975 al 1983.

lunedì 9 luglio 2012

CALIFORNIA BULLET TRAIN - LA STRANA STORIA DELLA "TAV" A STELLE & STRISCE

Il Senato dello Stato della California ha approvato venerdì il controverso finanziamento per 4,7 miliardi di dollari della prima tratta della nuova linea ferroviaria ad alta velocità, fortemente voluta dal governatore Jerry Brown e duramente avversata dall'opposizione repubblicana. Il treno ad alta velocità californiano (gergalmente noto come "bullet train", treno-proiettile) collegherà Anaheim a San Francisco passando da Los Angeles e san Jose, e sarà il primo a correre in America su rotaie a lui "dedicate" appositamente realizzate: attualmente infatti l'unica linea ferroviaria ad alta velocità esistente negli Usa, ossia quella che collega Washington DC a Boston, sfrutta la stessa infrastruttura in uso per i treni ordinari, ed ha quindi prestazioni più modeste di quelle dei treni superveloci europei ed asiatici che corrono su nuove linee realizzate ad hoc.

Negli Stati Uniti il trasporto ferroviario, che pure ebbe un ruolo assolutamente cruciale nel decidere le sorti del Paese durante il Diciannovesimo Secolo (non solo nella "conquista del West" ma anche nel plasmare il MidWest, stabilendo il ruolo di snodo commerciale nazionale di Chicago per la carne ed i prodotti agricoli), ha da tempo ceduto il passo al trasporto su gomma e a quello aereo, finendo relegato in un ruolo molto più marginale di quello che tutt'ora riveste in Europa e in molti paesi asiatici. L'investimento sulle nuove linee ferroviarie è quindi visto come parecchio eccentrico dall'opinione pubblica americana, mentre l'amministrazione Obama, che da tempo insiste per gli investimenti pubblici in nuove infrastrutture anche per stimolare la ripresa economica, lo vede decisamente di buon occhio. La Casa Bianca aveva fatto stanziare nel 2010 con molta enfasi otto miliardi di dollari di fondi federali e spinge per far realizzare una rete di una decina di nuove linee di treni superveloci dalla Florida al Texas, dal Colorado (unico progetto a prevedere importanti trafori, sulle Montagne Rocciose) al Midwest (il collegamento dell'Ohio con Chicago). A novembre del 2011, però, la Camera dei Rappresentanti di Washington, a maggioranza repubblicana, ha revocato lo stanziamento.

Al centro della controversia sull'alta velocità ferroviaria americana in generale, e su quella californiana in particolare, contrariamente a quanto accaduto in italia per la TAV, non vi è tanto l'impatto ambientale dell'opera (che lì è nota sotto la sigla HSR, High-Speed Rail), nè la banale sindrome "Not In My Backyard" di proprietari di case ed imprenditori ostili agli espropri e ai disagi dei lavori "in casa loro", quanto piuttosto i costi a carico del contribuente. L'alta velocità californiana, infatti, costa un'enormità: era stata progettata nel 2008 per un costo di oltre 45 miliardi di dollari, che in questi anni è lievitato fino ad oltre 68 miliardi. I molti oppositori dell'opera la contestano come uno spreco assurdo e velleitario, considerato che il Golden State è da ormai molti anni sull'orlo della bancarotta schiacciato sotto il peso di un debito pubblico fuori controllo, e stenta a reperire i fondi per tenere aperte le scuole e per pagare le pensioni ai dipendenti pubblici. 
Alla polemica sui costi si affianca, anche se con portata meno popolare, quella sulla filosofia di fondo dell'intervento, che implicherebbe una certa dose di "ingegneria sociale" spingendo di fatto la gente ad optare maggiormente per la scelta di vivere in grandi centri urbani collegati dai nuovi treni, e meno negli "exurbs", i centri residenziali extraurbani che tendono ad essere collegati più che altro da strade ed autostrade.

Le stesse resistenze, basate in parte sulla ostilità allo sperpero di denari pubblico e in parte alla ostilità al ruolo di un mezzo di trasporto "poco individualista" come il treno, hanno sino ad ora avuto la meglio in tutti gli altri Stati, come ad esempio la Florida, dove il governatore repubblicano Rick Scott a febbraio ha dichiarato che la sua amministrazione pur di non realizzare l'alta velocità ferroviaria tra Tampa e Orlando rifiuterà un finanziamento federale di due milardi e mezzo. La California, che ha deciso di andare avanti nonostante tutto, si conferma l'eccezione che conferma la regola.
Secondo il Los Angeles Times, l'approvazione della HSR californiana potrebbe mettere ulteriormente a repentaglio la già precaria impresa del governatrore Brown, che a novembre, contestualmente alle elezioni per la casa Bianca ed il Congresso, affronterà il giudizio degli elettori in un referendum sulla sua proposta di aumentare la già non modesta pressione fiscale per far fronte al dilagante debito che sta trascinando sempre più in basso il Golden State.

mercoledì 4 luglio 2012

IL COMPLEANNO DI UN'IDEA - PERCHE' FESTEGGIO IL 4 LUGLIO

Io amo l'America, perché l'America non è solo un Paese: è un'idea. Vedete: il mio Paese, l'Irlanda, è un Paese bellissimo, ma non è un'idea. L'America è un'idea, ma è un'idea che si porta appresso un carico, perché il potere viene assieme alla responsabilità. E' un'idea che porta con sé l'uguaglianza, ma anche se è la aspirazione più alta, la più difficile da raggiungere. L'idea che tutto è possibile, questo è uno dei motivi per cui sono un fan dell'America"                      Bono – Commencement address alla University of Pennsylvania, 17 maggio 2004

Oggi l'America compie 236 anni, e merita auguri di cuore - anche perché non è un periodo facile.
In periodi difficili come questo, si può riflettere su come e perché l'American Dream – la proverbiale ottimistica fede nel “futuro migliore” alla portata di chiunque sia disposto a lavorare duro per conquistarlo - sia a repentaglio, come ha fatto Jon Meacham nella cover-story di una recente edizione di Time; oppure, come ha fatto il premio Nobel per l'economia Jospeh Stiglitz nel suo recente saggio “The Price of Inequality”, si può tentare di dimostrare dati alla mano che l'American Dream è ormai solo una bufala, un mito che nella realtà ha da un pezzo cessato di esistere.
Nel primo caso, pur osservando che l'America non è il paradiso, che anche lì molti nascono e muoiono poveri senza colpa e molti altri nascono e muoiono ricchi senza merito, si può comunque continuare a credere che, come disse Bill Clinton nel suo primo discorso inaugurale, non c'è niente di sbagliato in America che non possa essere curato con ciò che c'è di giusto in America; nel secondo caso, invece, si giunge probabilmente alla conclusione che l'America è un esperimento fallito, che conviene lasciar perdere.


E' interessante che, come Meacham ha ricordato nel suo pezzo su Time, la locuzione “American Dream” venne coniata dallo scrittore James Truslow Adams nella prefazione del suo libro “The Epic of America” nel 1931: quindi proprio durante tempi estremamente difficili, in piena Grande Depressione. E' una spinta che si autoalimenta, che trova in se stessa le proprie ragioni e la propria energia: e questo contribuisce a fare dell'America una buona idea, un esperimento ancora in corso ma che meriterebbe di essere festeggiato e preso ad esempio anche fuori da chi americano non è.
Gli italiani sono soliti dividersi tra una maggioranza di antiamericani per preconcetto ideologico (e in buona misura per invidia) e una minoranza di filoamericani un po' puerili, che si accontentano di prendere spunto dal mondo a stelle e strisce per facili esotismi folkloristici, un po' come l'indimenticabile Nando Moriconi di Alberto Sordi.
C'è però di tanto in tanto qualche preziosa eccezione: segnalarne una può essere un buon modo per festeggiare questo Quattro Luglio.

Stefano D'Andrea, uno scrittore 42enne che lavora per Radio24 (è uno degli autori dei programmi condotti da Matteo Caccia: “Vendo tutto”, “Voi siete qui”), è web editor per Yahoo! ed ha insegnato sociologia della cominicazione all'università, ha appena pubblicato un libro insolito. Si intitola"Lamerikano", ma il succo sta nel sottotitolo: “Perché gli Stati Uniti hanno ancora qualcosa da sognare (e noi no)”.

E' una raccolta di pensieri, aneddoti e riflessioni su incontri, piccole esperienze, osservazioni dirette, durante un periodo di vita negli Usa (per lo più New York City), che l'autore utilizza per raccontare, da italiano agli italiani, in cosa consistano i pregi della mentalità, dello spirito, degli atteggiamenti tipicamenti americani dai quali gli italiani avrebbero tanto da imparare. E' un libro che aiuta. Aiuta a capire perché l'Italia rischia di rimanere “un Paese dove non c'è spazio e non c'è futuro, non ci sono sogni, non ci sono desideri, non c'è una frontiera”; lo fa aiutando a guardare all'America come a “un'idea verso cui noi dobbiamo tendere per non andare in cancrena, sperando di non raggiungerla mai”.
Eccone un piccolo ritaglio, che sembra fatto apposta per la commemorazione di oggi:

"In Italia insultare la bandiera, oltraggiarla, pulircisi quel che si crede, calpestarla o distruggerla, è reato penale, punibile con la detenzione fino a tre anni, trentasei mesi da passare chiuso in una cella. In altri paesi gli stessi comportamenti sono forse ritenuti meno gravi ma comunque, a vario titolo, non accettati. In America, al contrario, dare fuoco alla propria bandiera è un diritto. Non è prevista quindi per quel gesto alcuna sanzione o ammenda. L’atto rientra negli inalienabili diritti di espressione di ogni singolo cittadino. Perché? Perché i valori che la bandiera incarna sono forti e non temono l’oltraggio. Perché reato è impedire di esprimere un’opinione, non il contrario. Perché la divisione in stati federati, in etnie, lingue, religioni o ceti sociali, non teme l’unità che chiede la bandiera, anzi da essa viene tutelata. Perché l’insieme delle differenze è un valore. E la bandiera lo simboleggia. Laddove invece il vessillo fosse lascito di una monarchia che nessuno ricorda, manifesto di valori anacronistici come l’inno che accompagna il suo sventolare, non può che essere necessario obbligare con la violenza e la coercizione, a venerarlo. I risultati, in termini di condivisione, aiuto reciproco, senso di cittadinanza, diritti e doveri civili, che non c’è bisogno che li descriva".