giovedì 11 novembre 2010

"UNA POSSIBILE ALLEANZA DI CONVENIENZA"


Oggi Camillo segnala un post di The Politico che "legge la partecipazione di Jim Steinberg, vice segretario di Stato americano, alla conferenza del centro studi di Bill Kristol e Bob Kagan Foreign Policy Initiative dal titolo inequivoco "Restoring America's leadership in a democratic world" come l'avvio di una possibile alleanza di convenienza tra Obama e i falchi della democrazia. "

Non si tratta di una forzatura del noto neoconologo e neoconofilo: il post, apparso ieri sul blog di Ben Smith, è intitolato "Si fa la corte ai neocon?", e dice - nemmeno si domanda - proprio che "There's an alliance of convenience between President Obama and interventionist elements of the Bush administration".

Manco a farlo apposta, giusto oggi quel volpone di Bob Kagan se ne esce con il suo corsivo mensile sul Washington Post spiegando in lungo e in largo che i parlamentari Repubblicani non devono fare scherzi e devono votare l'approvazione del nuovo trattato START sul disarmo nucleare USA-Russia tanto voluto dalla Casa Bianca.

Non è finita. Tornando nell'ambito della blogosfera - dove spesso ci si sblilancia a scrivere ciò che ancora non si osa proporre sulla carta - l'altroieri Federico Rampini notava sul suo blog repubblichino che per la sua tourné asiatica di questi giorni (che secondo Thomas Friedman va letta tutta in chiave di containment anti-Cina) Obama ha "scelto di visitare solo delle democrazie. Di fatto le quattro principali democrazie asiatiche: India, Indonesia, Giappone, Corea del Sud", e si spingeva a trarne conseguenze piuttosto drastiche:
"Con Obama gli Stati Uniti riscoprono “l’alleanza fra democrazie”, o una politica estera che è fondata anche sui valori. Vedi il lancio di una “partnership globale” con l’India subito seguita dalla richiesta che New Delhi condanni le elezioni-farsa in Birmania.Dopo due anni di politica estera Obama sembra aver trovato un registro nuovo. Conseguenza anche delle delusioni avute ogni volta che cercato di seguire i vecchi senitieri della realpolitik (il “G2″ con la Cina subito naufragato, le terribili delusioni del governo Karzai in Afghanistan)".
Una sparata gratuita? Sarà, però il giorno dopo il suo collega dell'Economist ha bloggato esattamente la stessa cosa, notando come nel suo discorso davanti al Parlamento indiano Obama (spudoratamente parlando a suocera perché nuora intenda) abbia inserito un plauso al fatto che gli indiani “anziché lasciarsi sedurre dall'idea errata che il progresso debba affermarsi a scapito della libertà, si sono dedicati alla costruzione di quelle istituzioni dalle quali dipende la democrazia”, sicché l'India è riuscita a progredire "non nonostante la democrazia, ma proprio grazie alla democrazia"; e in quello tenuto subito dopo all'Università di Giacarta abbia voluto sottlineare che i progressi fatti dall'Indonesia "dimostrano che la democrazia e lo sviluppo si rafforzano reciprocamente".

Il mormorio, quindi, è pressoché unanime: tira un'aria non dico bushiana ma sicuramente clintoniana, nel senso che l'Obama 2.0 sembra voler rispolverare almeno un pochino il filone della leadership globale "pro-democracy" che nel primo biennio sembrava esser stato paraculescamente accantonato (o meglio messo in sordina, ma mai apertamente rinnegato).
Inclusa, secondo alcuni, la vecchia idea della "Comunità delle Democrazie" (quella, per intenderci, che piaceva tanto alla Emma Bonino di qualche anno fa, e che viene inece sbrigativamente snobbata come "impraticabile" dalla Emma Bonino in versione PD).
Staremo a vedere.

sabato 6 novembre 2010

IL PAESE DI OBAMA?


In questa mappa, i distretti colorati in blu sono gli unici che hanno eletto deputati Democratici.
Non c'è (più) traccia di una Obama Country.
Semmai un paio di Obama Coast e una puntinatura di grandi ma isolatissime Obama City.
Due anni fa, quando fu eletto il 44esimo presidente, la mappa era questa.

giovedì 4 novembre 2010

E' ARRIVATO / 2

Oggi su America24:

L'annunciato tsunami c'è stato, eccome. Molti commentatori nostrani in queste si affannano ad assicurare che non è andata poi tanto male, e che Obama "può tirare un sospiro di sollievo".
Il diretto interessato non pare troppo d'accordo, se stiamo al corsivo dell'opinionista di sinistra Gail Collins che appare oggi sul principale quotidiano USA, in cui, nel dar conto della conferenza stampa con la quale il Presidente ha definito quella di ieri una "grossa batosta" ("a shellacking") di cui si è assunto la "piena responsabilità", si regala al lettore l'immagine di un Obama "con l'aria di uno che ha passato la notte a svuotare dall'acqua una cantina allagata", ed appare "tra l'intontito e il traumatizzato".
Andiamo con ordine.
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RIASSEGNATO IL MINNESOTA



Perché, che avevate capito? :)))

Orbene:
“Una volta qui era tutto Minnesota”: potremmo liquidare così la più arguta delle polemiche scaturite dalla pubblicazione della nostra mappa cinefila degli USA, ossia quella inerente l’abbinamento con il film Fargo dei Fratelli Coen. Non solo nel senso che la suddivisione del MidWest negli attuali stati è roba recente, posto che fino ad appena un paio di secoli fa tutto il mazzo rientrava indistintamente in quella primordiale “Lousiana” oggetto del più grande affare immobiliare della storia, e il territorio denominato Dakota venne scorporato da quello etichettato Minnesota ancor più tardi, diciamo in quella che per noi qui è l'epoca garibaldina. Ma anche e soprattutto nel senso che quelle suddivisioni sono rimaste per lo più artificiali, un po’ come quelle che riguardano molte regioni italiane – e del resto basta osservare la forma geometrica dei confini di certi Stati americani per intuirlo. La “realtà” del North Dakota e quella del Minnesota, insomma, sono a dir poco omogenee, sicché il fatto che la storia raccontata dai fratelli Coen nell’omonimo film sia ambientata più nel confinante Minnesota che non a Fargo, principale città del ND, non ci avrebbe di per se smossi dalla linea dura “quod scripsimus, scripsimus”.

Poi però ci è stato fatto presente che i fratelli Coen sono nati e cresciuti a St. Louis Park, e questo ci ha commossi al punto da concedere – con decisione inappellabile ed insindacabile – a riassegnare a Fargo al Minnesota, per una questione di giustizia poetica.

Nella versione così emendata, per il North Dakota viene ripescato il primo dei non eletti: La Valle dei Monsoni, delizioso filmetto con John Wayne del 1940, la cui trama è liofilizzata dal mitico Morandini in questi termini: “Fuggita col padre medico dalla Cecoslovacchia occupata dai nazisti, Leni s'innamora di un baldo agricoltore americano per il quale lascia il fidanzato dopo aver scoperto che è comunista. Curioso melodramma Republic di ambiente western con un insospettato risvolto anticomunista”. Così sia.




mercoledì 3 novembre 2010

E' ARRIVATO


Lo Tsunami repubblicano, o forse più propriamente il mega-collasso democratico, è arrivato eccome - altro che "clamoroso pareggio" (ma per favore).

Per capire la portata dell’esito di queste midterm, va tenuto ben presente che in gioco erano non solo tutti i seggi della Camera ed un terzo di quelli del Senato (che negli USA si rinnova “a scaglioni”), ma anche ben 39 dei 50 governatori, più moltissime altre importanti elezioni “locali”, a cominciare dai parlamenti degli Stati, più i sindaci di città grandi e piccole, i giudici (che in molto Stati sono eletti dal popolo), e così via.

Quella che fino a ieri chiamavamo opposizione repubblicana era tale anche a questi livelli: i Dem oltre a detenere una vasta maggioranza in entrambi i rami del Congresso erano anche al comando nella maggioranza assoluta degli Stati, sia quanto a governatori che - ancor più - quanto a maggioranze parlamentari locali (le quali a loro volta determinano lo spazio di manovra del governatore).

Inoltre va anche considerato – e non mi pare che i commentatori in queste ore lo stiano facendo – che questa ormai ex opposizione non è certo in forma smagliante (come lo era, ad esempio, nel 1994 quando Clinton subì la rimonta della Republican Revolution); al contrario, è divisa, disordinata e drammaticamente sprovvista di leadership.

Eppure, è andata come è andata.

Alla Camera, per riprendersi la maggioranza ai Rep bastava rimontare di 39 seggi. Nel 1994 ne avevano strappati 54. Oggi se ne sono assicurati almeno 60, almeno il doppio di quanto Larry Sabato vaticinava quest’estate.
Si tratta della più grande vittoria elettorale parlamentare repubblicana dell'ultimo secolo: bisogna risalire al 1894, ai tempi della seconda elezione di Grover Cleveland, per trovare un record superiore. Trombati anche alcuni “inossidabili”, come Ike Skelton, presidente della commissione forze armate della Camera e deputato di un collegio del Missouri dal 1976, quando Obama era un liceale di Honolulu.
Adesso cambierà tutto. Tanto per fare un esempio: sarà ora il "Young Gun" Paul Ryan a presiedere il cruciale House Budget Committee, poltrona che fino ad ora era occupata dal Dem John Spratt così come il seggio del South Carolina dal quale questi è stato detronizzato dopo quasi trent'anni (significa che aveva vinto 14 elezioni consecutive).

Al Senato, dove una opposizione di 41 senatori su 100 ha di fatto un potere di veto su tutte le questioni importanti, i Rep a scrutinio ancora in corso se ne vedono già accreditare non meno di 46. I Dem non hanno perso la maggioranza assoluta ma sono passati dalla “supermaggioranza” (che avevano già perso all’inizio dell’anno con l’elezione di Scott Brown in Massachusetts) ad una risicata maggioranza di cinque o sei senatori (di cui uno è quello col fucile).
A Chicago, sweet home di Obama e roccaforte democratica da decenni, i Dem hanno perso anche il seggio senatoriale che dal 2004 al 2008 fu di Barack Obama (quello, per intenderci, che il famigerato Blago aveva cercato di rivendersi), il quale Obama aveva fortemente appoggiato il candidato Dem cui aveva riservato il suo comizio finale di sabato scorso. Non solo: hanno perso anche il seggio di Springfield, la capitale dell’Illinois, città-simbolo dalla quale Obama lanciò la sua candidatura alle primarie, dove il deputato uscente è stato scalzato da un esordiente “uomo qualunque” sostenuto dai Tea Party, papà di 10 figli e proprietario nientemeno che della pizzeria St. Giuseppe’s Heavenly.

Per quanto riguarda i governatori i Dem, che fino a ieri ne detenevano la maggioranza assoluta (26 su 50), hanno perso circa una dozzina di Stati. Sono tanti. Vuol dire che da oggi tre quarti degli Stati USA saranno governati dai repubblicani. Tra questi alcuni decisivi per vincere le presidenziali, come l’Iowa, lo swing-state per antonomasia Ohio (il neogov. repubblicano è l’ex conduttore Fox News John Kasich) e la Pennsylvania.
Il MidWest da oggi è interamente governato da quei repubblicani che appena due anni fa venivano dati come ridotti a partito regionale del profondo Sud.
Ma il picco più impressionante si è registrato nelle elezioni dei parlamenti “locali”, che non vanno sottovalutate.
Una valanga rossa di queste proporzioni nei parlamenti statali non si ebbe nemmeno ai tempi di Reagan. In una dozzina di casi i Rep. hanno conquistato la maggioranza in parlamenti dove sino a ieri erano all’opposizione da un’eternità.
In Texas, il secondo stato dopo la California per dimensioni demografiche (ed il più promettente di tutti per vitalità economica), dopo le elezioni del 2008 concomitanti con l’elezione di Obama alla Casa Bianca, i 150 seggi della locale Camera dei Deputati erano perfettamente ripartiti 75 Rep. e 75 Dem.; oggi sono diventati 99 Rep. e 51 Dem.
Spostandosi a nord, uno stato "operaio" come il Minnesota, dove il giovane governatore repubblicano Tim Pawlenty (segnatevi questo nome: ne sentirete parlare parecchio l'anno prossimo, quando si approssimeranno le primarie repubblicane) si destreggiava con un parlamento locale da decenni saldamente in mano ai Dem, stamattina si e' svegliato con una maggioranza repubblicana addirittura di 87 a 47.

Quanto ai “candidati dei Tea Party”, molto banalmente, sono andati bene quando erano dei buoni candidati, e male quando più o meno “impresentabili”: emblematiche, rispettivamente, la vittoria di Marco Rubio in Florida, e la sconfitta della O’Donnell in Delaware e di Paladino a New York.

L’ultima grande roccaforte democratica resta la California, il più grande stato USA per popolazione ma anche quello che per burocrazia, pressione fiscale, strapotere dei sindacati, normative in materia ambientale, e soprattutto debito pubblico, assomiglia più di ogni altro ad uno della vecchia Europa. Lì i Rep. hanno perso sia la sfida per il seggio senatoriale, dove la ex supermanager della HP Carly Fiorina non è riuscita a scalzare la navigata “boss” democratica Barbara Boxer, che quella per la poltrona di governatore, che il repubblicano “anomalo” Schwarzenegger passerà nemmeno ad un volto nuovo, ma al 72enne democratico Jerry Brown che aveva già lungamente governato il Golden State subito dopo Ronald Reagan. La sfidante supermanager di EBay e Disney Meg Whitman, che complici le sue cospicue finanze personali ha speso per la propria campagna più soldi di rtasca propria di chiunque altro nella storia, ha perso di brutto. Ricordatevene la prossima volta che vi ripetereanno che in America le elezioni le vince il più ricco (a propò: pare che complessivamente in qeste elezioni i Dem. abbiano speso più dei Rep. Per l’appunto).

Riassumendo:
“Da qualche parte lungo il percorso, colui che era l’apostolo del cambiamento ne è divenuto il bersaglio, sommerso dalla stessa corrente cavalcando la quale era stato portato alla Casa Bianca due anni fa”.
E’ l’incipit dell’analisi pubblicata a caldo non da qualche blog conservatore, ma dal New York Times.

Intanto Hillary è a Kuala Lumpur, il più lontano possibile dal disastro.

Uscito anche su Chicago Blog

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