sabato 14 agosto 2010

NOZZE GAY IN THE U.S.A.?


Oggi su Libertiamo:

"The culture war is back": così esordisce il sito web The Politico sulla sentenza del tribunale federale di San Francisco, qui egregiamente analizzata da Pasquale Annicchino, che ha decretato l'incostituzionalità del divieto di matrimoni omosessuali in California. Quando arriverà davanti alla Corte Suprema di Washington, la questione deflagrerà aprendo uno scontro ideologico del genere da cui l'attuale inquilino della Casa Bianca è solito tenersi alla larga con lo stesso impegno con il quale il suo predecessore amava sguazzarvi.

Ha un che di avvincente ripercorrere le tappe che hanno portato sin qui.
Nel 2000 i cittadini di quello Stato approvano - con una maggioranza del 61%, quindi anche con il voto di molti elettori democratici - il referendum propositivo “Proposition 22”, che introduce nel diritto di famiglia californiano la definizione del matrimonio come “unione fra un uomo e una donna”.
Trascorso un lustro, una prima volta nel 2005 e una seconda nel 2007, il parlamento locale di Sacramento approva una legge di segno diametralmente opposto che – primo caso nella storia degli Stati Uniti – ridefinisce il matrimonio come “contratto di diritto civile tra due persone”. Per due volte la legge viene approvata; e per due volte il governatore Schwarzenegger esercita il suo potere di veto, annullandola in difesa della volontà popolare espressa con il referendum del 2000.
Il terzo round nel giugno del 2008: la Corte Suprema della California annulla come incostituzionale (rispetto alla Costituzione californiana) la legge approvata dagli elettori nel 2000. Viene così una prima volta introdotta per via giudiziaria la possibilità di celebrare in quello Stato veri e propri matrimoni fra coppie omosessuali.
La questione viene messa nuovamente ai voti nel novembre 2008, il giorno dell’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca. Il nuovo referendum, “Proposition 8” (che l’allora candidato democratico, pur dicendosi “personalmente” più favorevole al compromesso del riconoscimento delle unioni civili, condanna come “discriminatorio”), chiede di reintrodurre la stessa norma approvata con il “Proposition 22”, ma stavolta non con legge ordinaria, bensì con un emendamento alla Costituzione dello Stato, in modo da sottrarla al potere interpretativo dei giudici costituzionali del Golden State. Mentre la gran maggioranza (oltre il 60%) dei cittadini californiani dà il proprio voto elettorale a Barack Obama, una maggioranza più esigua ma comunque assoluta del medesimo elettorato (oltre il 52%) approva il referendum, sicché il matrimonio gay sparisce nuovamente dall’ordinamento giuridico californiano - eccezion fatta per i circa diciottomila matrimoni freneticamente celebrati nel semestre intercorso tra la sentenza della Corte e l’approvazione del referendum, tutt’oggi validi.

Ultimo capitolo. Nel maggio del 2009, le signore Kristin Perry e Sandra Steir chiedono all’Anagrafe della Contea di Alameda di registrare il loro matrimonio. Non un atto estemporaneo, ma il primo passo di una precisa strategia pianificata da un team animato da Chad Griffin, uno dei principali strateghi politici del movimento gay statunitense. L'inevitabile rifiuto viene impugnato davanti al Tribunale federale di San Francisco, dando vita al “caso Perry contro Schwarzenegger”, conclusosi con la sentenza della settimana scorsa.
Il collegio legale ingaggiato per patrocinare la causa è un capolavoro di comunicazione politica: ne è a capo Ted Olson, celebre avvocato conservatore che difese Ronald Reagan durante lo scandalo Iran-Contra, e poi fu il difensore di Bush figlio quando questi si scontrò con Al Gore davanti alla Corte Suprema sull’esito delle elezioni presidenziali del 2000 (Bush lo nominò poi solicitor general, il capo dell’Avvocatura dello Stato). Olson - che si è risposato a 63 anni suonati, dopo aver perso la prima moglie nella strage dell’11 settembre 2001 (viaggiava sull’aereo dirottato sul Pentagono) - ha spiegato di non considerare questa una battaglia “di sinistra”, ma al contrario un colpo di coda conservatore, nel senso che il valore di una istituzione tradizionale come il matrimonio viene riconosciuto anche dalla comunità gay al punto da chiedere di potervi accedere.
Come co-difensore si è scelto (o ritrovato?) David Boies, famoso avvocato di area democratica: nel 2000 rappresentò Al Gore nella causa contro Bush davanti alla Corte Suprema, venendo sconfitto proprio da lui.

I repubblicani erano ben consci dell'esistenza di questa “falla di sistema”ed avevano tentato di mettere le mani avanti nel 2006, con il “Federal Marriage Amendment” che sarebbe intervenuto sulla Costituzione USA analogamente a come il “Proposition 8” fece con quella californiana. La legge venne però bocciata dal Senato, anche grazie alla defezione di alcuni senatori repubblicani (tra essi il futuro candidato alla casa Bianca John McCain), molti dei quali votarono contro non perché favorevoli al matrimonio gay, bensì perché ostili alla intromissione del potere legislativo “centrale” in una materia riservata all’autonomia legislativa dei singoli Stati.

Stante questa autonomia, il matrimonio gay oggi è già garantito in Massachusetts, in Connecticut, in Iowa, nel Vermont e nel New Hampshire, nonché nel Distretto di Columbia cioè a Washington.
Il vero problema è che vince sempre in tribunale, ma esce sempre sconfitto dalle urne. E' stato sottoposto a referendum in ben 31 dei 50 Stati, incluso il progressista New York; e in tutti – diconsi: tutti! – i 31 casi è stato inesorabilmente bocciato dagli elettori (in occasione delle ultime elezioni referendum analoghi a quello Californiano si sono tenuti in Florida e in Arizona, con esito identico).
Va anche detto che le unioni civili sono riconosciute in cinque stati (tra i quali proprio la California, dove si chiamano “Domestic Partnership”), il che consente alle coppie gay l’accesso a benefici altrimenti riservati ai coniugi sotto il profilo del welfare, del fisco e della privacy. Inoltre in una dozzina di Stati, tra i quali New York, la Florida e la stessa California, le coppie omosessuali hanno la possibilità di adottare figli (la coppia lesbica protagonista della causa “Perry contro Schwarzenegger” ne sta allevando quattro tutti adottivi).
La posta in gioco è quindi rappresentata dai ventisette Stati in cui le nozze gay sono bandite, i quali non sono tenuti a riconoscere i matrimoni omosessuali celebrati in altri Stati, grazie al “Defense of Marriage Act” approvato nel 1996 (in piena era Clinton, ma con il Congresso saldamente in mano ai repubblicani).

C'è stato anche un tentativo di “clonare” l’impresa qui in Italia, quando nell’aprile del 2009 il Tribunale di Venezia, per decidere una causa promossa da una coppa gay contro il Comune lagunare che aveva loro rifiutato la pubblicazione di matrimonio, rimise alla Corte Costituzionale la questione di legittimità degli articoli del nostro codice civile che impediscono le nozze tra omosessuali. Nei mesi seguenti si accodarono la Corte d’Appello di Trento e quella di Firenze, ed il Tribunale di Ferrara. Non coincidenze, ma una campagna portata avanti, sotto l’insegna di “Affermazione Civile”, dall’associazione "Certi Diritti" legata al partito radicale. Nell’aprile di quest'anno la Corte Costituzionale ha rigettato tutti i ricorsi, affermando che il riconoscimento delle coppie omosessuali è sì una aspirazione che trova fondamento nella nostra Costituzione, ma che può ben essere realizzata con strumenti diversi dalla vera e propria equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, per cui non sta ai giudici imporla in via interpretativa, ma al Parlamento sceglierla legifernado.

Se la versione italiana è stata un flop, l’originale a stelle e strisce è partita sotto tutt'altro auspicio; ma la strada è ancora tutta in salita per Olson e Boies: davanti alla Corte Suprema il voto di un singolo giudice potrebbe fare la magigoranza di 5 a 4. Gli occhi sono puntati sull'imprevedibile Anthony Kennedy. Nel 2003 era stato il voto decisivo – e l’estensore - della sentenza con la quale la Corte decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava la sodomia, facendo “saltare” tutte le leggi contro la pratiche omosessuali sino ad allora vigenti in svariati Stati del Sud. Prossimamente potrebbe tornare a fare da ago della bilancia.

mercoledì 4 agosto 2010

49 CANDELINE E... UNA “NON-COSA”


Oggi su Liberal:

CATTIVO COMPLEANNO, MR. PRESIDENT
Oggi Barack Obama compie 49 anni, ma non è tempo di festeggiare
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di Alessandro Tapparini
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Quando oggi Barack Obama soffierà le quarantanove candeline sulla sua seconda torta di compleanno presidenziale, i fotografi avranno il loro bel da fare per non inquadrare le fosche nubi che si addensano sullo sfondo. Mancano solo tre mesi dalle elezioni di medio termine, e pare che i repubblicani si accingano a riprendere il controllo di tutto il Congresso, non solo alla Camera ma anche al Senato.
Le mid-term elections servono ad eleggere tutti i deputati ed un terzo dei senatori. Di fatto, però, ad essere in gioco è soprattutto la Casa Bianca, sia perché il parlamento che ne esce stabilisce i limiti del suo potere nel biennio a seguire, sia perché l'esito delle urne è vissuto come un referendum per stabilire se a due anni dall'elezione del presidente la gente ritiene di star meglio o peggio. Va da sè, quindi, che quando l'economia va male la batosta è garantita per il partito al governo.
Larry J. Sabato, venerato politologo della Università della Virginia, sostiene che se si votasse oggi i democratici ne uscirebbero dissanguati da una emorragia di una trentina di seggi alla Camera e di sei-sette al Senato: come quella subita da George W. Bush al culmine della sua impopolarità, nel novembre del 2006. Obama si vedrebbe così trasformato, a tempo di record, da presidente più osannato degli ultimi decenni ad “anatra zoppa”.
Certo, anche Bill Clinton nel 1994, pur essendo stato eletto appena due anni prima con una maggioranza trionfale (aveva inflitto a Bush padre la quarta più grave sconfitta elettorale mai riportata da un presidente uscente, anche se in parte grazie alla candidatura terzista del miliardario texano Ross Perot), subì alle sue prime midterm una disfatta che ne segnò irreversibilmente la presidenza: i repubblicani conquistarono ben 54 seggi alla Camera ed otto al Senato. Clinton, però, se la vide con un'opposizione in forma smagliante, capitanata da un leader tostissimo (Newt Gingrich) e dotata di un programma preciso e coerente (il “Contract with America”), tant'è che quella campagna viene ricordata nientemeno che come Republican Revolution.
Obama invece beneficia di una opposizione divisa e sfaldata, e del tutto sprovvista di leadership: per la pronosticata debacle non avrebbe quindi attenuanti.
Secondo Sabato, i democratici hanno un unico precedente a cui potersi rifare. Nel 1982, Ronald Reagan testava la sua popolarità due anni dopo aver fatto riconquistare ai repubblicani non solo la Casa Bianca, ma anche molti seggi in parlamento e addirittura la maggioranza al Senato, dove erano stati all’opposizione da un quarto di secolo. La perdurante recessione economica (con disoccupazione attorno al 10%, proprio come oggi) lasciava presagire una catastrofe per il partito del presidente. I repubblicani puntarono su una campagna di spot televisivi giocati sullo slogan “e dài, diamogli una possibilità” (Let's give the Guy a chance), quasi si rivolgesse a dei ragazzini impazienti, rassicurandoli facendo leva sulla chiave di volta della retorica reaganiana: l'ottimismo. Il disastro fu scongiurato. A novembre i neoletti democratici furono ben cinquantasette, mentre quelli repubblicani furono solo ventiquattro; ma i repubblicani persero solo 26 seggi alla camera, meno della metà di quelli pronosticati; e miracolosamente non persero nemmeno un seggio al Senato, anzi addirittura ne conquistarono uno in più. E' questo “il solo caso in epoca moderna” – enfatizza Sabato – in cui in tempi di crisi economica il partito al governo ha ottenuto una “mezza vittoria” alle midterm.


L'attuale strategia di Obama non sembra però orientata su quel modello. Pare semmai basata sulla considerazione che i sondaggi attribuiscono un alto tasso di impopolarità anche all'opposizione repubblicana.
A maggio, Howard Fineman di Newsweek (testata più che benevola nei confronti del presidente) notava che mentre la campagna con la quale Obama ha conquistato la presidenza era positivamente incentrata sul futuro (speranza, cambiamento, ottimismo, superamento delle divisioni), quella per le elezioni di medio termine è negativamente incentrata sul passato recente, sullo spauracchio di un ritorno a ciò di cui due anni fa la maggioranza degli elettori decise di sbarazzarsi. Per rendere l'idea, Fineman citava un comizio newyorkese in cui il presidente aveva paragonato il proprio compito al “rimettere in strada l'automobile finita in un fosso” solo per ricordare che erano i repubblicani a tenere il volante quando l'auto era finita fuori strada.
Concorda Michael Scherer, corrispondente dalla Casa Bianca per TIME, secondo il quale il messaggio di Obama è: non chiedetevi se state meglio di due anni fa, ma quanto peggio potreste stare se non aveste scelto me. Cita un suo comizio in Winscosin lo scorso giugno : “lo so, a volte la gente non ricorda quanto male andavano le cose e quanto male avrebbero potuto andare”. Il risultato che il presidente rivendica non è quello di aver prodotto un miglioramento, bensì di aver impedito un peggioramento: “Invece di dare una cosa, avrebbe garantito una non-cosa”.
Scontato il rincaro del conservatore Wall Street Journal: “ 'lo sappiamo che state peggio di due anni fa, ma non è colpa nostra' non è un argomento granché seducente, anche a voler concedere che possa essere fondato. In questo modo, la campagna del 2008 'Hope' (speranza) cede il passo nel 2010 ad una della serie 'Fear' (paura)”.
La conferma è giunta venerdì scorso, quando Obama, affiancato da Sergio Marchionne, ha tenuto un comizio presso lo stabilimento di Jefferson North (appena fuori Detroit) della Chrysler, una delle due case automobilistiche – l'altra è la GM – salvate da un mega intervento statale da 60 miliardi di dollari, duramente contestato dall'opposizione repubblicana. Parlando agli operai scampati al licenziamento, e rivendicando il fatto che nel settore dell'auto sono riprese le assunzioni (peraltro anche presso la Ford, che non ha beneficiato di quel “salvataggio” statale...), il presidente ha voluto “ricordare che se al governo fosse andata certa gente, tutto ciò non sarebbe accaduto. Questa fabbrica, ed il vostro posto di lavoro, oggi forse non esisterebbero”.
Gli operai della Chrysler lo hanno applaudito entusiasticamente. Presto sapremo se l'argomento avrà fatto breccia nella platea, ben più vasta e composita, dei contribuenti dalle cui tasche sono usciti quei 60 miliardi.